giovedì 7 luglio 2011

Raimondo Lorenzetti allo Studio Arte Mosè

"L'altalena" opera ad olio di Raimondo Lorenzetti.
L'artista veronese è una consolidata presenza nello Studio Arte Mosè; è legato da amicizia con Emanuela Prudenziato e Vincenzo Baratella.















Emanuela Prudenziato davanti a tre opere di Raimondo Lorenzetti, presente nel Pad. italiano della Biennale di Venezia 2011.










PRESENTAZIONE DELLA PERSONALE DI LORENZETTI ALLO STUDIO ARTE MOSE' IL 14 APRILE 2007.
E’ inquietante sottoporsi all’analisi di sé; speculare filosoficamente sul ruolo che ognuno assume nella vita. E’ quasi ovvio discutere perché siamo qui e da dove veniamo. Traumatico è l’interrogativo privo di risposta: “perchè mi è d’obbligo svolgere questo ruolo piuttosto di un altro, comparandomi con gli altri?” Nell’imbuto della vita s’accalcano le componenti meritorie e indecorose dell’esistere. La natura matrigna si manifesta subito, già nel grembo materno, per sfumare anche la più tenue delle speranze, non dà spazio a riflessioni serene. Le uova dell’araba fenice schiudono i gestori dell’esistenza, che si clonano anche con un atomo di male. La partenogenesi del sé rientra nell’epochè fenomenologia della tematica dell’artista veronese. Lorenzetti è interiormente triste, arrabbiato con il meccanicismo cosmico; i suoi saccenti ficcano le loro idee sottoterra, con coni di teste di struzzo. Le verità esoteriche sono scritte solo nei libri; l’essoterico pende con fili di seta dalla bocca di un cane, forse troppo fedele per impalarsi contro un cielo gravido di nubi che s’aggomitolano come feti. L’odio per la dea madre, per la bona dea, che si concede ad accondiscendere le richieste di bimbo in “momenti di gioco” è fuggevole istante di serenità. Il futuro adulto addita la tartaruga gravata dal peso enorme delle responsabilità. Quella di Lorenzetti è una pittura fatta di simboli e di metafore: significanti precisi che marcano porzioni dell’inconscio. Come Baltus, tra l’altro la gamma cromatica rileva l’associazione, anche Lorenzetti è il pittore metafisico del “male di vivere”. In alcuni quadri è rappresentato l’accavallarsi delle azioni a mo’ di gioco, purtroppo è la finzione dell’esistere che mette sul palcoscenico della vita uno, nessuno e centomila, colti nella loro brutalità, alla stregua di Bosch.
Vincenzo Baratella


 


Il prof. Vincenzo Baratella, curatore critico dello Studio Arte Mosè, lo scrittore Gian Antonio Cibotto e l'Artista Raimondo Lorenzetti. Alle pareti le opere dell'Artista veronese.
































Raimondo Lorenzetti, Antonio Zanchetta e Edi
Brancolini.











"Arte:libertà di esprimere e filosofia di vita". allo Studio Arte Mosè

ARTE: LIBERTA’ DI ESPRIMERE E  FILOSOFIA DI VITA

Quattro Artisti in mostra per completare, in maniera visiva, il concetto della libertà di espressione e di esposizione attraverso il linguaggio dell’arte figurativa. Mosè Baratella, Raimondo Lorenzetti, Mariano Vicentini e Toni Zarpellon, personalità diverse, tecniche differenti; l’unico denominatore che fa da collante è lo spontaneo, a volte irriguardoso, modo di proporre le visioni del mondo: soggettive weltanschauungen che nella sommatoria delle poche, ma significative opere esposte rivelano un’ interpretazione esistenzialista del perché essere e come esser-ci. E la proceduralità del proporre palesa l’incondizionata libertà. L’ovvietà fenomenologica legittima l’affermazione e giustifica il concetto stesso di libertà; paradossalmente il significante decodificato in un significato trasparente non sempre estende la sua universale fruizione attraverso il dire artistico. In effetti dalla torre d’avorio non necessariamente il messaggio viola i costrittivi vincoli dell’ermetismo. L’arte giunge al bivio della comunicazione: l’estensibilità del messaggio comune attraverso la danza liberatoria di Dioniso ed il concettualismo  apollineo dove il bello è razionale ed elitario. Alla spontaneità dell’artista è indiscutibilmente più idoneo l’approccio all’ebbrezza dionisiaca, tra la danza di Sileno e l’incedere malizioso delle ninfe. L’arte diviene catarsi, atto di autoliberazione e di autoconservazione; “la vita dell’arte passa anche attraverso la morte”, sostiene Zarpellon nel manifesto della vita dopo la caduta all’inferno. Il ripetersi del disagio e lo spleen  inducono alla fuga dai clichet per un naufragio nell’isola felice dell’individualismo condiviso. Un ossimoro valido unicamente per gli artisti. L’unicità dei quattro è nella condivisione per ciò che i più hanno avuto la codardia di occultare con censura del super-io.
L’uomo libero, anche con le limitazioni, che si accapigliano in contenzioni psicologiche tende ad auto affermarsi esprimendo le tematiche e le problematiche che alla totalità è condivisibile, ma non esprimibile. La legge, comune punto di riferimento sociale, tutela del pudore e del buon senso si separa dal principio teorico e s’incorpora  nelle figure che rappresentano l’idea, pur mancando di dignità nell’assunzione dell’incarico. Mosè Baratella colloca le icone di Dio e dello Stato nella croce e nella toga, tuttavia nella ricaduta contingente un demoniaco cane spolpa in nome della legalità. Dall’ironia macabra del “funerale in famiglia” il prete si defila dal casino, dalle puttane e dai feticci, dimenticando sull’attaccapanni l’abito talare; resta il fiero monito della matriarca. “A tu per tu”, nel gioco fonetico che ricorda una nota marca di contraccettivi, tra ammissioni e benedizioni, Vicentini rende con l’efficacia del gossip  l’operato del ministro dell’alto ufficio morale. Nell’imposizione al silenzio Milingo assolve il matrimonio carnale senza prole. Il probabile scandalo si è concluso in un gioco mimico di mani, tuttavia la morte dell’ideale e forse anche dell’arte sono stati già decretati. Aedo della macchina, della velocità, del frastuono, del comune senso del pudore, della fine degli ideali, del seppellimento degli idoli, lugubre, fragile su di una sedia è graffiato vigorosamente il monito “memento mori” da Toni Zarpellon. Dalla caduta per una sollevazione parziale, l’artista bassanese ha fissato le larve, le ha viste  uscire dalle orbite, dal setto nasale, dagli alveoli madidi di putredine per riprendere il cammino della rinascita e della riaffermazione degli stimoli al consumismo. Nell’eclissi dell’attuale ragione il bimbo del terzo millennio è smaliziato per chiedere quale prodotto reclamizzi la luna. Lontano dagli ingenui quesiti, idonei all’epoca di Horkheimer, l’”apple”, come indiscusso faro di inculturazione sociale e veicolo indispensabile per elevare il prestigio sociale, diventa punto di riferimento ancora la macchina. Il vecchio cuore- serbatoio, colmo del costoso brent, si umanizza, prende vita e si rigenera già nella “cava abitata”. Qui nell’inquietante  nursei la creatura prolifica per prendere il sopravvento sul creatore. Inumana legge del contrappasso: la macchina diventa  subdolo dittatore e poi carnefice. E l’uomo gradualmente perde la libertà; infatti la statua della libertà ha gettato la fiaccola nell’Hudson, cambia fisiognomica e stende orizzontalmente il braccio nel deciso saluto per la mein kampf. Ordine s’alterna al disordine e quest’ultimo a nuovo ordine in una maniacale ciclicità vichiana. Lorenzetti, con rassegnata ironia, esibisce la sua “allegoria”. Il povero maiale, vittima dell’atavica fame, impiantato con il genoma umano si è trasumanato, creando pure i neuroni umano competenti e compatibili e si è qualificato essere intelligente. Il porco si porta ora sulle spalle l’albero della cuccagna e tra le mascelle gli ciondola un ometto portachiavi, forse ciò che rimane dell’eugenetico ricercatore. La rassegna sottolinea un gioco di parti, un’inesauribile alternarsi dei poteri, un cronologico andirivieni di vita e di morte, di sollevazioni e cadute, di sollecitazioni morali e tentazioni immorali; ineludibili presagi  che difficilmente malcela il linguaggio libero dell’arte. Lontano, fuori dalle dimensioni spaziotemporali, in una prospettiva arcadica, Aminta allieta con il flauto la bella Silvia, entrambi  immersi in apriche distese di verzure e di polle lustrali… il viaggio nell’onirico continua.
                                            Vincenzo Baratella


"povero maiale" olio su tela di Raimondo Lorenzetti.










"Statua della libertà" di Mariano Vicentini, olio su tela.

















"L'avvocato" di Mosè Baratella, olio  su tela.
















Creatura della "cava abitata" di Toni Zarpellon;
serbatoio di autoveicolo.
La cava abitata, accostata alla cava dipinta è una delle grandi opere di Rubbio (Bassano) eseguite da Toni Zarpellon.













Vincenzo Baratella, Raimondo Lorenzetti , Edi Brancolini allo Studio Arte Mosè.













Mosè Baratella; autoritratto, disegno su carta, 1934.















Mariano Vicentini, Emanuela Prudenziato.
Sullo sfondo "Lutto in famiglia" un'opera dell'Artista veronese.













Toni Zarpellon.

Toni Zarpellon allo Studio Arte Mosè

 

Toni Zarpellon e Vincenzo Baratella
allo Studio Arte Mosè nell'inaugurazione della personale " Cento teste di donna" dell'Artista bassanese.












Toni Zarpellon e Baratella Vincenzo nella mostra: "ARTE: LIBERTA’ DI ESPRIMERE E  FILOSOFIA DI VITA", inaugurata il 5 marzo 2011.allo Studio Arte Mosè.
















Presentazione della personale di Zarpellon allo Studio Arte Mosè il 26 marzo 2011:
Toni Zarpellon: sofferta evoluzione creativa.
Ars vincit omnia. Volutamente ho cambiato il soggetto da amore ad arte.  Con  Zarpellon l’assioma è simbiotico: nulla di più inscindibile per il Bassanese: fare arte e vivere. E non è stato un percorso facile. Mi rivelò che dedica intere giornate per raggiungere quelle soluzioni  a volte apparentemente scontate, ma così tormentate  che solo un continuum di ricerca e un lavoro di sperimentazione possono produrre. Il sasso della Senna nobilitato ad opera d’arte attraverso il recupero di Picasso, le proiezioni lineari di Mondrian come condensato del paesaggio, il piscio di Warhol per acidificare la serigrafia sulla quale campeggia l’amoroso Basquiat, l’elemento fisiologico inscatolato da Manzoni sono forse le provocazioni eclatanti per confutare la funzione sociale dell’arte e decretarne la morte. Nietzsche, alla fine del XIX secolo, annunciava la morte di Dio e con essa le virtù tradizionali. La gaia scienza inculcava i nuovi valori troppo umani e soggettivi; il neopositivismo partoriva la macchina e già si profilava il disagio psicologico. La morte delle arti figurative, che inneggiavano al bello raziocinante, apollineo, socraticamente demoniaco, maieutico si eclissavano con l’avanzare delle ovvietà fenomenologiche. Parallelamente finivano pure le incentivazioni artistiche spontanee mosse dalle pulsioni istintuali. I moti della psiche e la malattia dell’animo hanno messo in luce le tematiche inusuali e forse anche imbarazzanti. E sul malessere esistenziale Toni Zarpellon ha posto le  sue domande. Il segno d’interpunzione dell’interrogazione campeggia in molte opere. Anche nei teoremi più evidenti cavalca il soggettivismo interrogativo e lascia la porta aperta per le soluzioni opinabili. Nella ridda degli assiomi che il groviglio mentale partorisce, la sollevazione dalla caduta e la ripresa sono lente. Dalla morte dello spirito e dell’arte, in una partenogenesi spontanea, si è autogenerata la vita: le larve dei fantasmi della mente  si proiettano nell’opera per auto-affermare la rinascita. E ritorna all’arte e all’artista stesso: Toni Zarpellon stilla il manifesto alla vita dopo la caduta all’inferno, dopo la “testa esplosa”, dopo la chiusura comunicativa con l’universale raziocinante. Le interrogazioni,  i perché, l’ansia di dire e di proporsi, di attestare l’esistenza artistica, diventano  per il Bassanese,  prioritari motivi del vivere. In seguito ai mali nella danza con la morte oramai l’arte gode della risalita. Purtroppo nella condizione umana il ruolo metafisico agostiniano determinato dalla originaria imperfezione, biologicamente naturale per l’evoluzionismo e per la scienza che produce macchina e soffocamento indiretto dalla stessa, avanza la nuova mortificazione contemplata da Zarpellon. La creatura rende succube il creatore, l’atto s’appropria della sua peculiare potenza ed il necessario diviene volitivo e voluttuario. Nella cava abitata, una sorta di quinta  del sordo, in cui spiriti reali di macchina gridano al plenilunio, Zarpellon anima i suoi fantasmi. Nel neoanimismo teologico i serbatoi sventrati, totem del benessere, sono investiti di vita e nel contempo violentati da tagli in plurime fisiognomiche. Qui s’inserisce l’attività di auto-indagine: cento teste, cento  autoritratti per esplorare ciò che sta dietro al vello delle apparenze. Indi il succedersi delle cento teste di donna per coniugare il connubio maschio-femmina, il sé ed il suo imprescindibile completamento. Tuttavia è en plain air che si ode il fruscio delle fronde, si estende l’aprico declivio erboso dell’Altopiano, si sente impercettibile il sussurro del vento tra le pietre e si assaporano gli odori delle spore del muschio … Dalla prigione dell’io, dal carcere circoscritto della ragione, dall’angusto spazio dello studio, Zarpellon riprende un colloquio intimo con la natura. E’ questo un duale rapporto  di analisi, interpretazione, gratificazione, sollevazione e ripresa al fine di approdare alle sintesi di lettura e di composizione, quasi metafisica, espressionista negli urli esistenziali,  che solamente l’arguzia, la sofferenza e l’esperienza del vero artista possono cogliere. Le sue diventano opere che scoprono un linguaggio essenziale in una sorta di nuova metafisica. Le tele raccolgono i colori caldi e freddi, luminosi e smorzati identici a quelli che l’occhio ha colto. Il soggetto viene portato all’aperto, sul prato, magari nella calca della folla metropolitana, comunque comparato e compartecipe al paesaggio. I nudi stessi, stagliati contro l’orizzonte, perdono il fascino “pruriginoso” dell’erotismo per una sorta d’imbibizione ebbra di lirismo nella sensualità pulita dei corpi e delle cose.
                                      Vincenzo Baratella      



Personale di Toni Zarpellon
Cento teste di donna allo Studio Arte Mosè
TONI ZARPELLON A ROVIGO

Sabato primo marzo 2008, alle ore 18, nello Studio Arte Mosè, l’inaugurazione delle “Cento teste di donna”. Zarpellon, per scontati spazi di capienza, ha dovuto contenere la mostra con la metà delle opere, senza tuttavia privare lo spettatore della visione unitaria contenuta nel catalogo, stampato anche per la mostra rodigina. Toni Zarpellon, con formazione accademica e ricco di cultura, ex-insegnante, attualmente si dedica alla ricerca ed alla sperimentazione artistica, non senza motivarne le spinte propulsive. Con le “Cento teste di donna” ha voluto porre l’altro da sé, dopo la realizzazione dei “Cento autoritratti”, in permanenza al museo Bargellini di Pieve di Cento. Nei ritratti di donna l’artista bassanese ha puntualizzato angolature desuete, travisando l’immagine reale per carpire le innumerevoli sfaccettature dell’io mutevole. Sono ritratti, perché fissano fisiognomiche di distintive donne, colte nelle più spontanee espressioni della quotidianità, nella manifestazione di mutevoli stati d’animo. Sono donne pensanti, opposte all’Ego-centrismo dell’autoritratto, che si pongono, nell’ottimismo e nel pessimismo, il dilemma “che cosa vuol dire esserci?” La stessa D. Solle, nella sua indagine speculativa ponendosi il quesito esistenziale, trovava risposta nella “rappresentanza” ovvero la necessità dell’esserci per autoaffermare, anche nella sofferenza, l’esistenza stessa. Zarpellon, pur non dipanando dubbi e incertezze, esprime comunque un fluire di vita e l’esternazione della -delle- personalità. A scapito della bellezza estetica l’artista nobilita interiormente la donna ritratta arricchendola dell’Unicità della personalità. Già nel 1963, dopo il meticoloso figurativo post-accademico, Zarpellon espresse la crocifissione dell’interiorità umana attraverso la macchina. Quest’ultima unitamente al consumismo smodato soffocava le identità ed i valori  dell’uomo, che ricadeva alla degradazione “larvale”. Le “larve umane” per l’appunto; periodo tristemente ricordato dal bassanese: una corsa frenetica al mordi-fuggi-consuma che inibiva di ponderare sui valori. Dieci anni dopo con il manifesto “la Vita” Zarpellon accerta che c’è una luce che illumina il nostro pensare, nella simbologia rappresenta  la candela accesa dentro la zucca; arcaiche metafore per dire che c’è l’essere pensante con le sue piccole, anche fievoli illuminazioni. Poi il contatto con la natura e le “cave di Rubbio”.  Gli anni novanta lo vedono impegnato in quella singolare opera della pittura-scultura della cava abbandonata di Rubbio. Sono anni di fecondo lavoro, gratificato da oltre 400.000 visitatori e dal plauso di innumerevoli musei civici e istituzioni pubbliche. La mostra allo Studio Arte Mosè è la continuazione di un fecondo processo di ricerca artistica, nonché introspettiva, dell’artista.                                                        Vincenzo Baratella

      Toni Zarpellon all'inaugurazione della
       personale "cento teste di donna",
       allo Studio Arte Mosè;
       di fianco la gallerista, prof. Emanuela
       Prudenziato.















Toni Zarpellon allo Studio Arte Mosè durante la personale
"cento teste di donna" ; marzo 2008.

APPUNTI PER CENTO TESTE DI DONNA
DAL 2000 AL 2007 di Toni Zarpellon.
Nel gennaio del 1973 ho fatto conoscere il manifesto “La Vita” dal mio studio di via Rivarotta. In quell’anno ho iniziato a disegnare, dipingere e scolpire teste umane alternate ai vari aspetti della realtà quali i nudi femminili, gli oggetti della vita quotidiana, gli animali, gli spazi aperti della natura. Come primi tentativi ho messo gli occhi, il naso e la bocca alle precedenti “Teste che non vedono” le quali derivavano dalle “Larve umane” della seconda metà degli anni sessanta, per risalire alle “Crocifissioni dalla macchina" del 1965 dopo aver frequentato l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Un percorso questo di lenta rinascita per uscire dalla “fossa dei serpenti” in cui si è cacciato l’uomo della civiltà industriale e dei consumi.
In tutti questi anni uomini e donne si sono alternati nel mio studio e seduti su una vecchia poltrona di vimini, ho disegnato e dipinto le loro teste per avere una conferma della mia evoluzione interiore tesa a ricostruire una nuova centralità mentale e fisica. Si è stabilito in tal modo un legame profondo tra l’io e il tu dove le forme e i colori hanno visualizzato e reso possibile un processo di comunicazione attraverso il linguaggio dell’arte. Quando si fa ricerca il cammino, per quanto lo si voglia, non è mai lìneare. Possono succedere fatti imprevisti che mettono in discussione i risultati raggiunti. In questi casi anche l’errore diventa occasione di conoscenza. Si creano allora dei vuoti, delle assenze per poi dover incominciare tutto daccapo. Si ripete la storia del macigno di Sisifo che rotola di continuo dalla valle al monte e dal monte alla valle. Dopo gli interventi nelle “Cave di Rubbio”, un nuovo passaggio estetico—esistenziale, è avvenuto con gli ultimi cento autoritratti eseguiti a cavallo del 1999 e il 2000 al termine del quale ho iniziato ancora una volta a guardarmi intorno e tra le altre cose ho ripreso a disegnare teste di donna.
Come in periodi precedenti, esse sono state, negli ultìmi otto anni, motivo costante delle mie ricerche visive. Rovistando tra le mie cartelle ne ho trovate un centinaio, tutte disegnate su fogli di carta di cm. 70x50 ciascuno. Ho potuto fare tale lavoro grazie al tempo dedicatomi dalle persone che hanno posato.
Viviamo in un’epoca in cui il rapporto con la realtà è mediato da una sorta di pellicola artificiale, da un diaframma tecnologico e massmediale, nel quale si rfugiano fatti, persone e cose :nella convinzione che solo mentendo nello sdoppianenuo di sè si possa abitare il mondo.
Un mostro dalle grandi fauci vomita in quantità inaudita immagini appiattite fuori dal tempo e dallo spazio. Una asfissia devozionale e celebrativa si traduce in melassa visiva che tutto avvolge impedendo di scrutare nuovi orizzonti di vita.
Un nuovo e fatuo Olimpo degli dei è venuto alla ribalta. Si è caduti ancora nella trappola mortale di una visione metafisica del mondo.
Anche l’arte sta soffrendo di questa condizione. Negli ultimi cinquant’anni si è assistito ad un drammatico conto alla rovescia come se in ogni momento dovesse finire la storia. Si sono succeduti movimenti artistici la cui durata temporale è andata via via diminuendo per arrivare in un non luogo senza tempo dove tutto è diventato arte perchè si è sospeso ogni giudizio di valore. Ma se tutto è diventato arte niente è più arte. L’ansia di occupare un qualche posto nella storia si è tramutata in deliri di onnipotenza, in parossistiche mistificazioni dove il dire si è sostituito al fare. Oggi sembra imperi la cultura della morte e una visione catastrofica del mondo sta sempre più abitando la mente dell’uomo. E più si consolida l’idea di questa possibile deriva, più aumenta la tendenza a mettere in scena eventi per essere bruciati sul rogo mediatico.
I tempi lunghi della riflessione sono stati banditi. Tutto deve essere fatto e consumato in fretta per sprofondare nel baratro del vuoto e del nulla dove anche la nostra vita rischia di venire sprecata senza essere vissuta.
Da molti anni ormai, a questo drammatico panorama storico, ho contrapposto un mio progetto di ricerca tuttora in fieri teso a scrutare oltre e in me stesso. Desidero ora osservare da vicino le cento teste di donna che sono l’argomento di questa pubblicazione. Gli strumenti di lavoro sono stati le matite e le matite colorate. Materiali secchi e rigidi che ben si prestano a solcare lo spazio del foglio bianco di carta. Ogni testa disegnata si pone nella sua assolutezza occupando un proprio spazio lasciando nello stesso tempo spazio dentro di sè a tutta la realtà. Un dentro e un fuori che interagiscono in un flusso di energia in espansione. Come in un crogiolo, una miriade di interrogativi intorno al senso dell’esserci si agitano, si scontrano, si fondano, si lacerano, si intersecano alla ricerca di equilibri dinamici in un gioco infinito. Interrogativi che vengono oggettualizzati dalle forme e dai colori dentro l’alveo della struttura plastica delle teste disegnate. Struttura la cui configurazione spaziale ed emotiva cambia in rapporto alla diversa persona che ha posato e dove l’eventuale somiglianza è solo la conseguenza di un processo costruttivo autonomo e non la priorità.
L’osservare e disegnare una testa altra da me ha richiamato alla luce un’immagine che prima di essere fuori era dentro di me. Posso dire che queste teste di donna sono lo svelamento di una mia realtà mentale ovvero riflessioni materializzate. Sostanza psichica che si condensa sul foglio di carta tramite il movimento della mano che visualizza l’energia proveniente dal cervello grazie ai segni organizzati nello spazio. Sono tensioni spazio—temporali dove la materia si riscatta vestendosi d’anima, quando ci si chiede il perchè della vita sapendo di dover morire, una strana inquietudine ci assale fino a drammatizzare talvolta il nostro rapporto con la realtà. L’arte ha il compito di .sublimare tutto ciò con l’atto creativo e placare l’angoscia che deriva dalla consapevolezza della propria solitudine nell’Universo.
Durante le ore di posa, ai colloqui su vari argomenti, si sono alternati profondi silenzi. Si sentiva allora solo il rumore provocato dall’attrito delle matite sul foglio bianco di carta malgrado io usi le più pastose per dare maggior scorrevolezza ai segni. Segni la cui intensità cambia con il mutare della pressione della mano nell’individuare luci e ombre in un continuo rapporto dialettico tra loro. Osservando il lavoro compiuto, le persone che hanno posato rimanevano incuriosite nel vedere la loro testa trasfigurata che non è più quella che percepiscono quando si guardano allo specchio. Il fatto che sapevano che io non faccio ritratti nei descrittivo del termine, mi metteva al riparo dalle loro eventuali aspettative di vedersi rappresentate come fa la macchina fotografica. Si è molto discusso su come ormai siamo immersi in una quantità di ìmmagini ottenute meccanicamente e si conveniva sul fatto che la presunta perfezione e sdolcinata piacevolezza ostentata, si traducono in messaggi privì di vita. Una necrosi visiva che blocca l’immaginazione creativa, che chiude la mente dentro un recinto di passività e di alienanti condizìonamenti.
Ponendosi al centro della mia attenzione, le modelle si sono sentite anch’esse partecipi dell’azione creativa perchè valorizzate nella propria unicità, scoprendo talvolta nel mio lavoro aspetti di sè prima sconosciuti o vissuti in modo confuso. Questi sono alcuni dei motivi per i quali molte di loro hanno espresso il desiderio di posare. Ho sempre pensato che l’arte ha il compito di rendere visibile l’invisibile. Essa non è una sorta
di allucinazione privata ma una delle forme più alte per conoscere se stessi e la realtà dei mondo di cui facciamo parte.
Luglio 2007                                Toni Zarpellon

"cento teste di donna" presso
ex-Istituto Statale d'Arte, sala
Carlo Dalla Zorza.
Campo dei Carmini,
Dorsoduro, 2613 VENEZIA
INAUGURAZIONE:
3 settembre 2011 ore 18.


Opera di Zarpellon Toni, olio su tela.

















Toni Zarpellon e la pittrice Mirta Caccaro allo Studio Arte Mosè.














Toni Zarpellon ed il pittore Gilberto Nardini allo Studio Arte Mosè.










Disegno di Toni Zarpellon; significativa sintesi grafica per rappresentare il soggetto.







fotografie: pr.ema© .

Mosè Baratella allo studio arte mosè

         













Immagine della Galleria nella retrospettiva di
Mosè Baratella.

Opera di Mosè Baratella, olio su tavola.



La prof. Emanuela Prudenziato ,
curatrice della mostra: " GESU'
NELL'INTERPRETAZIONE ARTISTICA DI MOSE'" .
"Mosè e il senso del sacro"
di Emanuela Prudenziato
"L'uomo è stato creato ad immagine e somiglianza di  Dio. La condizione dell'esistere pone l'individuo di fronte a scelte non sempre reversibili. Vivere significa sedimentare una serie di esperienze che spesso procurano dubbi, angosce, ansie inspiegabili, che non si eliminano facilmente. La stratificazione di questo determina il senso del nostro esserci. Le risposte che cerchiamo o riusciamo a costruire sottolineano il dolore dell'esistere umano. L'affermazione iniziale  quale interpretazione può avere se questa è la condizione umana? Solo Gesù è morto e risorto, l'uomo crede nella Ressurrezione dell'anima dopo aver attraversato bene e male, aver gioito e sbagliato secondo le sue capacità razionali. A questo punto Mosè rielabora la dimensione umana, cerca una sua interpretazione, che lo liberi e liberi dai lacci della limitatezza antropica. L'esternazione del dolore di Cristo è la sofferenza terrena dell'uomo. La lettura forte, cruda e a volte violenta delle raffigurazioni sacre è in fondo il messaggio, il discorso di Mosè uomo, creatura disperatamente terrena." 

"Il Cristo morto" di Mosè Baratella, olio su tela.

"Gesù nella lettura artistica di Mosè"
di Vincenzo Baratella
Mosè ha sempre palesato un intrinseco senso di religiosità, motivato da insoluti  quesiti esistenziali: perché siamo, da dove veniamo, dove andremo. Questo desiderio di conoscenza è stato accentuato dal contingente proporsi nel consorzio umano e nella necessità di procacciarsi il necessario del vivere in un contesto non sempre serenamente gratificante. La rissosità concorrenziale, i subdoli meccanismi del proporsi sociale, le scalate di dubbi profeti, i fraudolenti della credibilità popolare, il crollo delle illusioni, lo scacco economico, hanno fatto della figura di Gesù l’icona sentita in una buona porzione della produzione artistica di Mosè. Gesù ha compattato l’ideale dell’uomo e del Dio. L’uomo nel tradimento del quotidiano e il Gesù figlio di Dio, remissivo, quasi impotente a ribellarsi a contesti ostruttivi, ingannevoli e coercitivi. Gesù è nella esigibilità della religione troppo umana. La necessità di ribellarsi interiormente attraverso il Primo ed Unico capro espiatorio è dimostrata dalle innumerevoli opere che Mosè ha dipinto, disegnato e scolpito. In effetti ha mostrato, ha compianto, ha umanizzato, ha dubitato, il percorso esistenziale del figlio di Dio. Nelle opere “classicheggianti”, volutamente eseguite per compararsi con i grandi maestri del passato, la figura di Gesù bambino e della Madonna sono eseguiti con trascendente serenità e meticolosa perizia tecnica. Ricordo che ha riprodotto molte volte - d’altra parte lo fecero Tiziano, Lorenzo Lotto, Giorgione - il “Cristo portacroce” di Bellini, intenso, mistico, prima della “barbara restaurazione”. Madonne bambine, serene, pudiche, ignare delle sofferenze che l’accidia avrebbe procurato sono i comuni denominatori che nell’olio, nella tempera e nell’acquarello, dimostrano l’animo sensibile, forse anche ingenuo, di Mosè Baratella. Con il Cristo adulto crollano gli idoli della semplicità e della spontaneità e Mosè acuisce la rabbia: la sua è unita a quella di Chi avrebbe potuto cambiare gli eventi. Nell’ultimo atto Mosè raffigura il perplesso grido “Eloì …” sulla croce e conclude piangendo indubbiamente l’incomprensione su un attuale sepolcro, che tanto ricorda la lezione d’anatomia di Rubens.                        


Catalogo parziale dell'opera di Mosè Baratella.
Disponibile su richiesta. Gratuita consegna b.m.
Autoritratto di Mosè Baratella, olio su tela.

















Mosè Baratella metre dipinge.






















Due nature morte di Mosè
olio su tela.




















PRESENTAZIONE PER LA RETROSPETTIVA DI    MOSE' BARATELLA 
del 26 Maggio 2007.

La consistente mole di lavori mi ha condizionato nella scelta. E’ difficile valutare se deve essere solo un continuum antologico, un periodo particolare ed identificabile, o entrambi. L’opzione rischia di dare un’immagine settoriale, non rispondente al vero, magari circoscrivere l’opera, così vasta e complessa di Mosè, ad un periodo, che, per l’immediatezza esecutiva o per irruenza del proporsi di getto, rischia di distorcere la visione completa dell’uomo e dell’artista. E’ comunque un azzardo che devo correre, in quanto mi è logisticamente impossibile esibire simultaneamente buona parte dell’opera. La presente personale è circoscritta agli anni settanta. Il decennio 1970-80 è stato un periodo fecondo e creativo per Mosè; d’altra parte le lotte sociali, l’autunno caldo, protrattosi oltre il sessantanove, le richieste femministe, il referendum sul divorzio, il diritto di famiglia, le occupazioni degli atenei e l’assassinio di Moro, con gli anni di piombo, sono stati forieri incentivi tematici e, nella ridda dei confronti, soluzioni tecniche uniche. Anche se ho un occhio di riguardo per mio padre, l’obiettività di giudizio, non mi impedisce di usare un equo metro valutativo. “Le piazze d’Italia”, la fortunata serie dell’arte programma, dell’arte denuncia, dell’arte cronaca, sono state per Mosè opere che hanno rappresentato l’impegno, la fecondità e la poliedricità del suo pensiero. Seppure di getto, in ogni foglio, perché gessetti ad olio ed oli su carta sono in maggioranza i protagonisti dell’esposizione, c’è la sintesi di un tema. E’ da rilevare che un artista così fecondo come Mosè, doveva in continuazione avere a disposizione materiale per esternare. Allora cinquantenne consumò parecchie energie per raggiungere livelli contenutistici e formali desueti. Lui stesso, consapevole di avere una marcia in più, esplodeva la sua esuberanza soprattutto nelle grandi città: Venezia, Verona, Padova, Ferrara. A Rovigo avvertiva l’indifferenza ed un alito di saccente maldicenza, soprattutto nei cenacoli ristretti dove la cultura era aedica ed elitaria. La presente personale è per i rodigini inedita. Un Mosè diverso dal canonico figurativo, così conosciuto dai più. Sono alcuni dei lavori che l’hanno visto protagonista fuori dalle mura cittadine. Significativo è l’olio “Verona in amore” segnalato a Caprino veronese, nel quale compatta ciò che la città scaligera dietro alla tenda lascia intravedere: i resti dell’arena e gli amanti, guerrieri, nel dramma dell’opera, con lo sfondo la tranquillità del Benaco.
Vincenzo Baratella



SCAMBIO D'IDENTITA' DI MOSE' BARATELLA (1919-2004) di Graziella Andreotti. “Scambio d'identità” è la singolare mostra che lo Studio Arte Mosè dedica a Mosè Baratella (Pontecchio Polesine 1919 – Rovigo 2004) che dà il nome alla galleria gestita dal figlio Vincenzo e da Emanuela Prudenziato, nipote del pittore Angelo Prudenziato. Sono esposti ventuno dei numerosi autoritratti su tela e su carta nei quali Baratella si rappresenta con le sembianze e con i soggetti di Ligabue. Un'ossessione non momentanea, ma lunga negli anni, affidata a cromatismi vivaci e intensi, a deformazioni formali provocanti, a occhi tristi e stralunati, a bocche spalancate, a lingue fuori, per esprimere un'inquietudine mai sopita, un grido di dolore e di rabbia, un'amarezza che lo faceva diventare Ligabue, Munch, Napoleone, re, sultano, ciclista, corsaro, gallo, aquila e volpe. Perchè Ligabue? Perchè Baratella era un grande artista, che aveva dedicato tutta la vita alla pittura, alla scultura e alla grafica, riconosciuto fuori, ma non negli ambienti chiusi e ristretti della sua città sempra avara con i suoi figli migliori. Era consapevole del valore delle sue opere, ma si sentiva incompreso come Ligabue. Il lavoro, la famiglia, Rovigo erano una prigione per i voli della sua arte. Alcuni dei suoi dipinti sono stati attribuiti a un famoso pittore e Mosè ha fatto in tempo a subire questo ennesimo affronto. Che cosa avrà provato?
Padrone di mezzi e tecniche, informato sulle correnti del Novecento, le ha sperimentate tutte creando lo stile di Mosè. Uomo del proprio tempo, è passato dalla pittura en plein air con angoli cittadini e paesaggi polesani alle nature morte, ai ritratti, alle rappresentazioni dei temi sociali del periodo del dissenso. Quadri che avrebbero trovato degna collocazione solamente nella dimora di Peggy Guggenheim a Venezia. Mosè teneva in casa rotoli di tela per tagliare ogni giorno il pezzo necessario. Regalava, vendeva o svendeva per pagarsi le sigarette, i colori, le tele, le cornici, per non far arrabbiare la moglie, per non intaccare il suo modesto stipendio di impiegato. A vederlo sembrava la persona più tranquilla. Lo si poteva incontrare in piazza Vittorio Emanuele II, elegante, il cappello bianco di paglia o di feltro a larga falda, la sigaretta in mano, poche parole, due grandi occhi azzurri e un fascio di tele arrotolate sotto il braccio per l'approvazione degli amici o di qualche dolce signora. Se lasciava la casa di via Viviani, appena fuori delle mura, lo faceva per cercare la quiete della campagna con il poeta coetaneo Alberto Marzolla, anche lui cantore del Polesine, nella vecchia casa lungo il Canal Bianco. E qui fu incantato da due umili lavandaie, Pina e Renata Filippi, che fotografò e ritrasse più volte negli anni '50 e ancora nel 1985. Lo stesso Canal Bianco e le stesse lavandaie che incantarono Mario Cavaglieri nel 1910? C'è qualcosa di misterioso in questo Baratella-Cavaglieri. Quale messaggio avrà voluto lanciare? Il figlio Vincenzo sta cercando di rendere giustizia alla produzione poliedrica di una vita nelle due stanze della sua galleria, ritrovo da alcuni anni di artisti veneti, friulani, toscani, emiliani, romani. Qui si può incontrare lo scrittore Gian Antonio Cibotto, il critico e storico dell'arte Antonio Romagnolo, Vico Calabrò, Raimondo Lorenzetti, Lino Lanaro, Aleph Pizzinato, Toni Zarpellon, Luigi Marcon, Carmelo Consoli, Gilberto Nardini, Marco Manzella, Mirta Caccaro, Giampaolo Dal Pra.
Ma Mosè avrebbe bisogno di grandi spazi, di un intero Roverella, di un Salone della Ragione, di un palazzo dei Diamanti.

























 
Mosè Baratella: "il bacio di Giuda" e
"Memento mori"; in alto è visibile
l'autoritratto.

  Lo scrittore G. A. Cibotto (foto © pr.ema). 
MOSE’ BARATELLA: UNA TESTIMONIANZA SUGLI ANNI SETTANTA
…. presso lo Studio Arte Mosè di Rovigo, è stata inaugurata la mostra  dell’Artista polesano scomparso da qualche anno. La retrospettiva, intitolata “Anni settanta”, è una delle chiavi di lettura e di interpretazione di un decennio significativo per il cambiamento della società e per la ricerca di vecchi e nuovi valori. Mosè Baratella, rodigino, dedito per settant’anni alla pittura e meglio conosciuto fuori dalla città, non è stato solo il pittore dei paesaggi, delle nature morte e dei ritratti, secondo i più classici schemi formali, ma ha sperimentato plurime tecniche ed abbracciato numerose correnti del secolo scorso. E’ stato un artista impegnato, secondo i canoni della miglior arte. Dal sessantotto ad oggi molteplici sono state le trasformazioni: la riforma del diritto di famiglia, i referendum sul divorzio e sull’aborto, guerre e dittature in America Latina, le stragi di stato e gli anni di piombo. Mosè non è stato un moralista, ma un cultore dei veri valori, denunciando con l’opera ciò che riteneva negativo, amorale e contrario al diritto naturale, che in molti quadri ha identificato con la religione. L’olio che apre la rassegna s’intitola “ultime notizie”: è l’individuo smarrito che legge di se stesso sul giornale. E’ l’incipit. Seguono “le piazze d’Italia”, con le contraddizioni della società dopo le vantate emancipazioni e il boom economico: non ci sono regole morali, l’illecito è trasformato in lecito, il male è legittimato come il bene da consumare e la felicità è nell’effimero. Mosè è stato anche un artista scomodo, perché ha detronizzato i modelli corrotti e deviati. La rassegna, con una trentina di opere, è da vedere.
                                                                                                                                Vincenzo Baratella




  "L'avvocato". olio su tela di Mosè Baratella

MOSE’ E L’ARTE DELLA COMUNICAZIONE
Ha vissuto in un arco di tempo ricco di cambiamenti politici, sociali ed artistici di notevole significato. Di tutto ciò è stato testimone ed interprete acuto e senza compromessi. Le opere danno voce alla realtà, al quotidiano vissuto con coraggio e dignità. L’abilità nell’uso del colore e delle diverse tecniche artistiche gli hanno consentito di poter esprimere il suo pensiero morale, mai moralistico, sugli uomini di potere e non-, sulla religione, i costumi sociali, gli eventi che maggiormente hanno segnato l’ultimo secolo - le piazze d’Italia-. Osservando le grafiche, i dipinti, dal segno sicuro, forte, incisivo, emerge una persona, prima che un artista, onesta con se stessa e con gli altri, senza reticenze e falsi pudori. L’esperienza del figurativo ha visto momenti di arte classica, ma anche moderna e contemporanea. … Mosè non ha precluso nulla alla sua capacità artistica,e al sentire d’artista; ha sperimentato tutte le espressioni d’arte,talvolta influenzato dai grandi maestri, talvolta anticipando nuove forme d’arte. Consapevole di questa ricchezza non ha mai smesso di disegnare, dipingere, di creare comunicazione, perché sentiva di avere ancora molto da dire, da conoscere, per riuscire ad esternare l’arte, spiegarne il senso per la vita.
                                     Emanuela Prudenziato

LO STUDIO ARTE MOSE’ NATO PER OMAGGIARE UN ILLUSTRE POLESANO

Lungo via Fiume (R0) che in rapida discesa punteggiata di edifici talora di grande eleganza, approda davanti alla chiesetta che nel mese di maggio, fino a ieri, vedeva arrivare fanciulle in fiore, al numero 18 c’è lo “Studio Arte Mosè”. Una galleria diretta da due coniugi: Baratella e Prudenziato, che rimasti affascinati dagli artisti circolanti nelle loro case durante la giovinezza, hanno deciso di dare vita ad uno studietto divenuto dopo rapida esperienza una galleria. E’ stato un crescendo di appassionati che non hanno lesinato gli applausi “alla grande” pure a Mosè Baratella, pittore, scultore e grafico palesano sparito nel 2004. Egli si è dedicato alla pittura fin dall’adolescenza, frequentando gli atelier di illustri maestri, senza subirne le influenze. Ha colto le sensazioni genuine della nostra terra polesana e non si è privato di giudicare gli artifici delle correnti più azzardate. Assolto il suo lavoro, dirigeva le energie alla copiosa produzione di quadri. Per tutta la durata della vita non smise di dedicarsi all’arte. In ottanta anni di attività numerose sono state le rassegne alla quali ha partecipato ottenendo indiscussi riconoscimenti.
Gian Antonio Cibotto

 
 
Mose Baratella contempla un suo disegno.      
Lo scrittore G. A. Cibotto (foto © pr.ema)

Studio Arte Mosè. Via Fiume, 18 - Rovigo
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