lunedì 30 settembre 2013

Estrema Protesta di Vincenzo Baratella



VINCENZO BARATELLA


ESTREMA
PROTESTA
 

Prefazione di Emanuela  Prudenziato

Preludio della tragedia




E‘ solitamente per caso che inizia un lungo cammino mentale composto da giustapposizioni, un flusso di coscienza, fatti  consequenziali, momenti del vissuto, idee, frammenti. Ci si trova indaffarati a districare questo disordine. Una fabula umana nota, arcinota, ma l’intreccio si dipana sempre nuovo, inatteso, sfugge talvolta all’ovvietà e racconta la vita come se si trattasse di un film, fa credere al protagonista  di esserne  il regista. Il suo destino: la famiglia, il lavoro che si è costruito.
La parte dell’eroe è assicurata, non ci sono comprimari; è convinto di seguire la trama che ha predefinito, tuttavia l’interscambio con i massimi organismi sociali limita e condiziona. I colpi di scena susseguono, non sa gestirli; sembra che ci sia qualcosa oltre quel problema e continua a lottare eroe: “senza macchia e senza paura” con il coraggio, la perseveranza, la dignità, l’onestà, ma… non bastano le armi morali se vi sono difficoltà economiche.
Le banche esigono ben altri eroi, vincoli, oneri da rispettare al di sopra di tutto e di tutti. Non si è più persona, ma debito insoluto, un cliente non più affidabile, inadempiente che aumenta “la sofferenza” dell’istituto finanziario”.
 Il protagonista-regista si identifica con questa “sofferenza”, non più questione di denaro, ma di dignità irrimediabilmente ferita. Da qui inizia a prendere forma una scelta senza ritorno, la negazione di sé per affermare se stesso, fibra necessaria nel contesto della quotidianità. L’affabulazione degli avvenimenti in prima persona è un susseguirsi di ricordi velocissimi. Il protagonista rivive, in una serie di associazioni di idee, tutta  la propria esistenza: l’educazione ricevuta, la forte valenza formativa  peculiare delle  sintetiche frasi, fonte di saggezza e di esperienza, pronunciate  dai nonni e rinfrancate  dai genitori.
La pratica quotidiana del sacrificio e della soddisfazione per il proprio lavoro si contrappongono alla freddezza dell’interesse politico, alle piccole convenienze di chi gestisce la cosa pubblica, a chi ha prerogative camaleontiche. E’ indubbiamente difficile trovare le espressioni appropriate per smascherare il gioco subdolo di questa realtà; nella mente rimane un inestricabile pensiero. L’unica testimonianza di questa profonda angoscia è costituita da una parola: PERDONO.
 La voce del protagonista è la lettera mai scritta, annuncio della tragica fine. Il solo modo per dare visibilità a questo percorso esistenziale.
Nell’impegnarsi a parlare di una vita non significa semplicemente esporre una vicenda individuale, ma il continuum di vari momenti che costituiscono la storia con la  S maiuscola  scritta  da un Nevio, Sallustio e non solo grandi avvenimenti come in Ennio, Livio …. L’esercizio più difficile è trasporre con parole efficaci, sentimenti, pensieri, fatti vissuti da individui che non sono personaggi storici, eroi, ma hanno costruito la loro storia e quella dei manuali anche solo con una foto nel fondo pagina.
Raccontare senza tradire, come nel “mestiere“ di storico, testimoniare la verità, raggiungere l’obiettività  non  solo dei  fatti, delle vicende accadute, ma anche e soprattutto dei sentimenti dei protagonisti, del tempo vissuto, in cui sono nati e si sono evoluti.
L’applicazione continua della memoria è un ripescaggio interiore e del proprio tempo non tanto per ricordare o far rimembrare quanto piuttosto scuotere le menti, i cervelli, non è cosa certa parlare ancora di coscienza (forse solo la gente comune ne rammenta il significato). La realtà procede spietatamente senza guardare negli occhi nessuno, né onestà, né disonestà: valgono i soldi contanti, i bancomat …
Non ci sono ideali perché non esistono più né coscienza, né anima; è troppo duro procedere secondo le regole, guardarsi dentro non è esercizio fattibile da tutti, si può rimanere invischiati in un’autoanalisi che può scardinare i comportamenti più liberi, disinibiti (libertini è un termine troppo intellettuale, elegante); queste cose non ci sono più, c’è solo l’ostentazione dell’avere e quindi di poter fare, mettere in atto qualsiasi cosa.
L’uso del verbo alla terza persona emerge nella cronaca della mesta cerimonia; la voce narrante sostituisce il protagonista. E’ il preludio della tragedia: mimesis catartica di una vita.

Agosto 2013
                                                                  Emanuela   Prudenziato

                                                                    
ESTREMA PROTESTA
di Vincenzo Baratella
una storia vera camuffata da romanzo
presentazione libro
Sabato 19 ottobre 2013 alle ore 18,00 nella “Sala Celio”, gentilmente concessa dalla Provincia di Rovigo, in Via Ricchieri Celio, 8, la Prof.ssa Emanuela Prudenziato presenta il libro di Vincenzo Baratella, ESTREMA PROTESTA.

L’autore, come anticipa Prudenziato nella prefazione al libro, riflette sulle vicende odierne recuperando le esperienze, anche dolorose, del secolo trascorso. La società, storicamente a noi più vicina, viene analizzata attraverso le sue  aspettative, i suoi sacrifici, valori, insegnamenti traditi dal razionale cinismo del presente.

ESTREMA PROTESTA è una storia vera e attuale. Sacrifici di una famiglia artigiana nell’ascesa al benessere. Le commesse non pagate dalla pubblica amministrazione, i debiti, la mortificazione economico-psicologica inducono al tragico epilogo.
                                                *       *       *
Estrema protesta.
E come può non essere altrimenti… mala tempora.
Tre generazioni che faticano in una salita per raggiungere il benessere economico; la scalata verso il prestigio sociale. Non ci sono re, ma umili che diventano i protagonisti anonimi della società.
Nel libro ho voluto far emergere la spettacolarità “filmica” nelle pagine affettive; ovviamente in loro compare la componente soggettiva. Per il canovaccio mi sono documentato ed ho riportato la storia vera, pur camuffando nomi e luoghi: il fatto di cronaca è uno dei tanti.
Le pagg. struggenti, dolorose, “padre, madre, nonno, equitalia, debito, la forza pubblica, sono in fondo dei veicoli per sottolineare ancor più l’induzione all’estrema protesta e indirettamente -nella comparazione ieri oggi- l’accusa al sistema “sconveniente”.
Rispetto altri miei lavori emerge la notevole differenza linguistica: il linguaggio massimamente usato è colloquiale - gergale, per facilitare la diretta fruizione cognitiva del messaggio.                     Vincenzo  Baratella.
                                 
                                          *    *    *
RIFLESSIONI SU “ESTREMA PROTESTA
Relatore: Artista prof. Toni Zarpellon
“Sala Celio” della Provincia di Rovigo, 19 ottobre 2013.


Ringrazio Vincenzo Baratella per aver scritto il libro “Estrema protesta”. Libro che ho letto e riletto e che continuo a sfogliare sottolineando alcuni passaggi e acute riflessioni per un processo di identificazione che avviene quando, in ciò che si legge, ritroviamo parte di noi stessi che si chiarifica e prende forma rendendoci consapevoli delle nostre inquietudini esistenziali per liberarcene.
Esso è un affresco degli ultimi cinquant’anni di storia italiana dove la storia personale del protagonista si intreccia con la storia collettiva plasmata da persuasioni occulte con tutti gli intrighi e manovre politico-finanziarie praticate sempre in nome della democrazia e della presunta felicità consumistica.
Un libro che rimarrà come testimonianza di una parabola che dall’inizio trionfalistico arriverà al suo declino e collassamento.
E’ una prosa che ti tira per la giacca per riportarti alla realtà dell’esistenza. Realtà drammatica a volte mitigata da un’amara ironia per meglio fissare lo sguardo sulla condizione umana.
Non so se si può parlare di realismo nel senso di una scrittura che mira a descrivere fatti concreti della vita. Sono tentato di rovesciare il termine parlando di “costruzione mentale” dove la realtà è filtrata attraverso la memoria nella solitudine della riflessione. Da qui la trasfigurazione poetica tramite un linguaggio asciutto dove la componente diaristica e forse autobiografica mi sembra costituisca il filo conduttore delle scansioni spazio-temporali dei vari capitoli che compongono il libro.
Qualcuno ha detto che la storia cammina sulle gambe della cronaca. Dico questo per difendere (ma non credo ne abbia bisogno) il lavoro di Baratella dai possibili attacchi di chi potrebbe vedere nel suo libro un taglio cronachistico perché troppo vicino a fatti non ancora sedimentati nel tempo. Sembra che lo storico debba parlare solo di cose lontane, svincolate da un coinvolgimento personale.
Baratella parla invece di fatti che sono avvenuti intorno a lui o che ha vissuto personalmente. Un lavoro importante per lo storico di domani che dovrà parlare di ciò che è avvenuto oggi. Egli dovrà fare i conti proprio con il contributo di chi è stato testimone diretto di ciò che è avvenuto. Solo un soldato che è stato coinvolto in prima persona in un campo di battaglia può dire che cos’è la guerra. Gli altri solo per sentito dire.
© [T.Z.] riproduzione riservata

L’estrema protesta di Vincenzo Baratella, indignato e pessimista.


Elisabetta Zanchetta


L'eternità è un valore accettabile soltanto per chi prova un sentimento religioso. II denaro, la corsa al potere, all'accaparramento, ma anche più sempli­cemente e con profondo sacrificio l'impegno per realizzarsi, l'investire sulle proprie capacità, le conquiste sono tutte cose che hanno il sapore del quotidiano. Capita, però, che nella comparazione tra ieri e oggi qualcosa strida e faccia sfociare l'accusa verso un sistema "sconveniente", fatto di finzioni, apparenze, medianicità, sofferenze interiori, gioghi mentali. Ecco che ne nasce un grido, ”Estrema protesta", ultimo lavoro letterario di Vincenzo Baratella, insegnante di lettere e titolare della galleria d'arte Mosé di via Fiume. Una denuncia, la sua, con semplicità, un linguaggio immediato e accattivante, di una "società in cui tutti siamo vessati, dove alla scalata della famiglia verso il benessere succede poi la crisi e il miraggio del posto fisso si risolve nell'ennesima promessa senza fonda­mento", fra cronaca e sentimento. Baratella mette nel libro la storia degli umili che diventano protago­nisti anonimi della società, storie vere sotto falso nome, a cui si intreccia nell'aspetto più filmico e spettacolare, anche l'esperienza quotidiana persona­le. Un grido pessimista e forte che vuoi far giungere al lettore un messaggio: occorre reagire per sma­scherare ogni gioco subdolo della consolidata realtà.
© riproduzione riservata

giovedì 16 maggio 2013

Unico e in marmo

Unico e in marmo
di  Matteo Faben 
allo STUDIO ARTE MOSE’


Sabato 18 maggio, alle ore 18, presso lo Studio Arte Mosè di Rovigo sarà inaugurata la personale dello scultore Matteo Faben. E’ uno dei pochi forgiatori che dall’inizio alla fine, dall’idea alla forma, scalpella, toglie, incide, leviga la metamorfica roccia calcarea, saccaroide, bianca, cristallina. Faben usa quella di Carrara. E’ il desiderio di mostrare se stesso attraverso il veicolo dei grandi. E chi meglio di lui oggi può dar prova di un’abilità senza pari nel proporre l’oggetto con la stessa materia dei più illustri. Lo scultore veronese, già esperto a sfruttare il rosso della sua terra, il biancone, la pietra tenera di Vicenza, ha fatto un’inderogabile scelta: solo il marmo di Carrara. E non è un vezzo. Matteo ha praticato le cave toscane già adolescente; la polvere bianca, oleosa al tatto è entrata nei pori; ha capito attraverso lo scalpello la linea di frattura, la vena del colore data dalle inclusioni minerali. Faben, che a soli tredici anni è tra il lastrame di Carrara, ha in seguito la necessità di dare “forma e significato a quello che solo all’inizio era un blocco” informe. Frequenta l’Accademia Cignaroli di Verona; perfeziona il disegno ed il ritratto dal vero. Alla maniera canoviana mette i punti sul gesso e poi riporta sulla massa di roccia. Mi raccontò che negli schizzi gli era oramai usuale raffigurare il corpo umano nella dimensione reale. Nella ricaduta tridimensionale dell’opera è un figurativo perfezionistico. Nelle sculture di Faben c’è tutto il passato della scultura levigata, liscia al contatto, morbida nelle curve. Ha sposato un sincretismo classico nella forma e odierno nella tematica. Le opere sono in effetti frutto del pensare contemporaneo, con le ingerenze di quella che può essere definita la metafora del vivere quotidiano. “Tutte le volte che mi sono sentito piccolo - afferma - è esplosa dentro di me la voglia di un infinito irraggiungibile”. E’ la Fede per autoaffermarsi a lasciare una testimonianza della sua Arte. A buon diritto è tra coloro che lasceranno il nome ai posteri; infatti, alcune sue statue campeggiano sugli altari, nei fonti battesimali e nelle piazze. Tra le più recenti sono da ricordare: “La Vergine” nella Chiesa di San Gaetano di Barletta; “Il Fonte Battesimale” nella Chiesa di San Luca di Carrara; “La fontana” nella Piazza del popolo di Casaleone (Verona). Singolare è comunque il fatto che ogni opera di Matteo è unica e irriproducibile, poiché solo quello è il pezzo di marmo bianco di Carrara e solo quello ha subito le carezze del suo scalpello e la passione della sua forza creativa. La delicatezza delle forme e l’intensità emotiva, esplicate in “Mistero della Fede”, sono chiari esempi del trasporto altamente spirituale dell’0pera di Faben. La mostra resterà aperta fino al 13 giugno p.v. tutti i giorni feriali dal lunedì al venerdì, dalle 16,30 alle 19,30 , in via Fiume 18 a Rovigo.
                                Vincenzo Baratella   
Autoritratto di Matteo Faben

La gallerista dott.ssa Emanuela Prudenziato dopo allestimento personale di Matteo Faben
"Il Mosè" destinato a Fonte Battesimale di Chiesa a Carrara


Recensione su : www.viavainet.it




Ecce Homo di Matteo Faben in marmo di Trani, cm. 191. Collocato nella chiesa di San Gaetano a Barletta.

Chiesa di San Gaetano di Barletta, dove è collocato "Ecce Homo"

mercoledì 20 marzo 2013

ARTE COME AUTOTERAPIA


ARTE COME AUTOTERAPIA
Mostra allo "Studio Arte Mosè"  di Rovigo
dal 16/03/2013 al 02/04/2013



L’arte per scongiurare le angosce.


Ai quesiti sulla vita, l’arte è stimolante veicolo nella ricerca della risposta: desiderio di una identità. E quando si indaga emergono le angosce. Nel difficile interscambio del consorzio sociale la più parte del genere umano è occupata a soddisfare i bisogni primari e di conseguenza evidenzia un  approccio labile ai quesiti teorici sulla serie delle problematiche che investono la sfera emozionale. Viceversa chi ha, e avuto, rapporti conflittuali con se stesso e con gli altri ha la consapevole necessità di rovistare tra le cassettiere del secretaire più intimo e di collocarsi in un oltre uomo. Quello che si guarda dentro dallo strapiombo, tra le montagne, immerso in un latte di nubi e nebbie. Analogo al Wanderer di Friedrich chi è sofferente mostra la tranquillità inquieta nell’accettazione delle proprie fobie. Subentra il desiderio di universalizzare il dolore e con la necessita di usare un linguaggio eclettico, una comunicazione poetica, quella dell’arte, della pittura, per trasmettere agli altri il modus operandi, per scongiurare le paure interiori; un’arte per costruire il totem. Bisogna salire sul palco e annunciare la profezia del come ri-proporsi; escludere l’inattuale linguaggio dei classici, dei perfezionisti, dei realisti esasperati, di chi ha rappresentato l’esteriorità, l’apparenza, la maschera, personam  tragicam: quanta species cerebrum non habet. Così l’artista “in conflitto” nell’estrinsecazione artistica esclude la raffigurazione della mera magnificenza estetica, anzi la grava con i pesi dell’imperfezione. Strappa il velo delle siluette apollinee e pone al fruitore la sconcertante verità nuda dell’essere. La personale visione del mondo, per quanto turbata e conturbante, sottolinea l’universalità del dolore e s’apre disponibile alla ricerca del piacere. E’ un ossimoro l’intero percorso esistenziale. L’opera è una varietà di radiografia, di analisi introspettiva, per scrutare ciò che è nascosto dentro di noi ed abbiamo timore di rivelare; nel contempo diventa tentativo di esorcizzare traumi assopiti, vissuti forse dalla più parte e mai condivisi, perché censurati dal superio sociale. Per la categoria d’artisti che rientrano nella sfera della “follia” è una pittura desueta, oltre gli schemi concettuali abituali: un nuovo urlo di Munch con lo scopo di superare a bracciate vigorose l’onda delle afflizioni. L’uomo naufrago nel turbine di una tempesta interiore ha la necessità di creare altari, immagini propiziatorie alla stregua dei progenitori. Questi nelle caverne di Lascaux, di Altamira imprimevano le mani imbrattate di ocra rossa sulle pareti delle caverne, accanto ai graffiti del bisonte, per lanciare un anatema, scongiurare il pericolo nella lotta impari uomo e animale e propiziare la forza per il raggiungimento dell’obiettivo con successo; il “genio incompreso” spoglia l’essere umano dai corollari estetici e mostra l’essenza intima. E’ sostanzialmente un’arte per auto mostrarsi, e per cercare unanimi consensi. C’è il bisogno di trovare una condivisione per porre una tregua psicologica per ciò che turba ed ha sconvolto. Il bisogno dunque di mettere sul tavolo dell’anatomopatologo i tabù dell’intera evoluzione, sezionati, classificati e ritratti affinché l’osservatore possa spartire con gli atri quello che ha provato e opportunamente evitato di rivelare. Solitamente l’artista turbato, incompreso, fobico, s’immerge tra la folla per gridare afono la sua ossessione, ma anche per nascondersi, come durante la bufera, nelle notti d’inverno, il bimbo vince il panico, con il lenzuolo tirato fin sotto il mento. I bimbi di Schiele, denutriti, violati, sono sostanzialmente i figli di un’umanità avariata; quelli che hanno sperimentato la brutalità dell’ “l’uomo nero”, senza riuscire a proteggersi, o meglio, avere protezione da figure parentali di riferimento. Le teme del mondo sono innumerevoli e come tali devono essere ingabbiate nelle tele. Nella necessità terapeutica di esibirsi la genialità borderline usa tonalità tendenti al  monocromo, efficace esempio in Gino Sandri, perché sono più  efficaci a esprimere la sofferente condizione di chi vive fantasmi all’interno di mura, impedito da barriere, bloccato da mattoni. Sono pure le denunce di Caruso. Tra follia e normalità il confine è arbitrariamente soggettivo; lo spettatore coglie soprattutto la dimensione non comune, non condivisa; fuori dagli schemi ci sono carcasse mummificate. Solipsistiche ripetitive espressioni maniacali che ripetono la sofferenza dell’intera umanità con la pretesa della innovativa scoperta della stessa e di proporne il rimedio. Nelle risultanti artistiche, già da Bosch, s’immagina il fetore di redivivi Oetzi, incartapecoriti, con i denti grandi appena trattenuti dagli alveoli, la pelle tesa sul corpo estraneo e le pupille in una midriasi di allucinazione e di morte; eppure la risultante artistica fa percepire dinamiche interiori. Si estrapola il desiderio di vivere e di curare lo stato di sofferenza. Nel comune denominatore emerge l’attesa: del silenzio, dell’uditore, della resurrezione dopo la morte-della-nascita. La madre è stata quasi sempre colpevole di aver procreato l’oggetto sofferente e dipendente. Il demone artistico, l’ispirazione per realizzare, il dipingere per universalizzare il tema al mondo altro non sono che sforbiciate finalizzate a tagliare il cordone ombelicale con la madre biologica e con la matrigna psicologica. Un concetto che ha analogie  leopardiane. Nonostante siano negative le visioni del mondo l’artista che  si libera tra genialità e pazzia non perde quasi mai il desiderio di godere quelle che ritiene comuni gioie. L’espressione artistica ha la valenza di autocelebrare la condizione diversa, ma anche quella di programmare il mutamento in meglio della vita stessa. Soprattutto negli espressionisti s’intravvede l’oro, il decoro e  il riverbero del sole, la luce, la speranza, ciò che è prezioso: la vita stessa. In fondo l’ergo sum è l’unica certezza anche nella follia; infatti attraverso l’espressionismo esistenziale esasperato, similmente a Schiele, è ribadito il nietzschiano concetto dell’umano, troppo umano che spinge all’autoconservazione e all’autoanalisi come cura.

                                          Vincenzo Baratella

testo e immagini non riproducibili



sabato 2 febbraio 2013

humilesque ollae



 

 

 

 
 


 
 
RETROSPETTIVA  DELL’OPERA DI
MOSE’ BARATELLA
curata dalla prof.ssa Emanuela Prudenziato
humilesque  ollae

dal  29/09/12  al 31/10/12
presso lo Studio Arte Mosè
Via Fiume, 18 – Rovigo



humilesque ollae

Ogni arnese a contatto con l’esperienza umana ne diventa simbolo; questo esprime l’opera di Mosè Baratella. La lettura dei manufatti è quanto mai soggettiva, intensa, coinvolgente, elaborata, un flusso di coscienza, una ricerca del proprio tempo per con-fermarlo. Più significativo è il legame con gli utensili della cucina, humiles ollae, quando si  rinnova come un rito la preparazione delle pietanze per la famiglia:  la scelta  del cibo, delle pentole adatte per  la cottura, gesti accurati, precisi, atti a ricreare quel gusto gradevole  a tavola e  con la stessa semplicità  rigorosa offrire sulla tela quelle piacevolezze gustative. La pennellata decisa, la mano segue il pensiero, la passione di esprimersi in pochi tocchi fanno emergere dalla immagine   gli  oggetti   del quotidiano. La personificazione del vivere, dei gesti in cucina, nel cuore della propria famiglia, gli sguardi, le cose dette, il tono di voce che risponde alla richiesta del gusto di una particolare pietanza; tutto ciò si percepisce dai quadri con gli ordinari tegami colorati: rossi, blu, alluminio, che rivelano  l’usura del tempo, la patina calcarea dell’acqua, le bruciature, le screpolature ed un occhio nero al posto dello smalto. Un modo per scrivere lo scorrere della propria vita, le proprie scelte nel bene e nel male. Una pennellata più corposa, una correzione come un rammarico, un ricordo tra i chiaro-scuri ed ancora colore più vivo, più brillante, via con forza, per far rinascere quel magico momento, un taglio di luce fra zucche, arance, uova e carnose verze appena colte. Alcune inquadrature tratte dal lavoro in cucina, tra i fornelli, un pollo spennato pronto per essere cotto, arrostito, gli aromi dell’orto: prezzemolo, aglio, per  preparare  polpose melanzane di un viola ametista del Brasile, una bottiglia verde tra arance tarocco succose, profumate avvolte in uno strofinaccio, le  uova  per i dolci, la pasta fresca “creata” dalle mani  esperte della consorte. Ancora peperoni gialli, rossi con la loro polpa carnosa, croccante e saporita ed un grappolo d’uva bianca sullo sfondo. La raffigurazione degli attrezzi abituali costituisce una modalità espressiva che tende all’analisi e alla narrazione della vita familiare negli aspetti più intimi, più veri. L’arte, la capacità di vedere oltre per parlare di sé, di quanto si considera importante, offre la possibilità di volgere l’attenzione alle piccole cose e le rende grandi per la loro semplicità, autenticità. Il quadro, che vede della frutta in primo piano ed una pentola seminascosta da una tovaglia, presenta sullo sfondo delle figure: una madre ed un figlio, la realtà fondante dell’esistenza umana, sono immagini lontane, ma importanti  per le quali e con le quali condividere la quotidianità della propria espressione artistica, il gusto, la piacevolezza del dipingere per comunicare più intensamente i propri sentimenti. Tanti  momenti   di vita fermati sulla tela come   ricerca    recupero     del tempo, istantanee di   famiglia, ricordi interiori, riflessioni pittoriche guidate dal colore dalla luce, da quel sentimento inspiegabile che spinge a rappresentare ciò che si  ama, quell’ unione, quella religione del nucleo familiare  una pittura realista  dove  le cose  “parlano”, “raccontano” la vita dall’ interno di una cucina per arrivare al sentimento per la devozione, l’attenzione instancabile della consorte  Giuliana, decisa e sicura  nel suo affetto e nelle sue azioni per costruire, difendere il proprio “nido”, l’equilibrio, la serenità dentro e intorno alla propria famiglia.
                                                         Emanuela Prudenziato
         

 

 



 


 

 

domenica 27 gennaio 2013

Edi Brancolini

Edi Brancolini: i miti moderni di un preraffaellita.
Dall’alto di una rupe, prono sul ristretto spazio che la sola veste arancione sa contenere, similmente ad un monaco orientale, lo stilita riposa e medita. Isolato in un paesaggio terracqueo e confortato dal silenzio, l’asceta, improbabile, ma vagheggiata creatura dell’attuale nuovo millennio, sosta. In seguito alle sconfitte vergognose nelle scalate all’Olimpo, la creatura di Brancolini, avverte la necessità di abbandonarsi nel soliloquio della meditazione; è l’opportunità per rigenerare il simbiotico rapporto con l’universo. Sulla stele è a volte una creatura nuda, raggomitolata in posizione fetale, disposta a rinascere in un nuovo Eden.  Tra le rocce, lucenti e sconfinate, gli smeraldini specchi d’acqua accolgono, in un idilliaco, amniotico, brodo primordiale, la saggezza del colloquio intimo. Il paesaggio è sfumato nella corale condizione di finta quiete: permea la tensione verso l’Alto. L’uomo edifica le torri di Babele. Con l’ausilio di pali, con possenti massi a fondamenta della grande ara, con lo sforzo di sacrificali cariatidi e di ignari   peccatori costretti ad espiare colpe d’origine, si tenta di edificare l’osservatorio della conoscenza. Adamo ed Eva, indubbiamente le icone simbolo del percorso catartico dell’umana specie, reggono la volta della fede e della ragione, sulla quale sormonta la sfera: la perfezione, la terra, l’uovo, l’origine. Le certezze materiali si definiscono con la luce dell’alba. Ed è con la luce, con la luce della ragione, che si eclissano le parvenze; dal colloquio intimo, confortato dal dubbio, l’uomo di Brancolini azzarda nuove ipotesi per la sperimentazione. Messo in discussione l’ipse dixit si stracciano i pochi legacci inibitori che trattengono l’uomo alla terra; inizia il volo. E’ un innalzarsi goffo, pesante; è comunque un batter di braccia all’unisono. Per l’Artista di Carpi i “voli sincronizzati” sono epistemologiche speculazioni sul destino e sulla natura dell’essere. In modo personalissimo, riprende il linguaggio dei preraffaelliti e con sorprendente chiarezza decodifica gli universali significanti. Nella fase esecutiva dell’opera è uno scrupoloso continuatore delle tecniche e delle forme che si estesero fino al protorinascimento. Vanta l’uso dei colori alla caseina, una sorta di arcaica tempera dagli straordinari effetti cromatici, che in fase di rifinitura arricchisce con soluzioni grasse per dare la consistenza del colore ad olio. Le opere sono il frutto di un lavoro incessante di velature e finiture, tocchi di pennello e sfumature. Alla stregua di Rossetti e di Klinger, Brancolini ritorna al soggetto del passato della tradizione della mitologia e della religione, calato nei ruoli del quotidiano. Recupera la religiosità popolare, l’iconografia del ieri con i riferimenti a oggi, con la ridda di dubbi, senza intenti polemici, né di denuncia. In effetti l’illustrazione  della Vita Nova  e della cantica dell’Inferno di Dante ed di alcune Metamorfosi  di Ovidio trovano sorgente d’ispirazione nella comparazione con il modo di vivere presente. L’analisi del simbolo coevo, attraverso la riproposta del tema del passato è l’espediente peculiare dei preraffaelliti. Analogamente a Dafne, in cui la fitogenesi salda il legame alla terra, le radici dell’uomo sono fisse nel sostrato granitico. C’è in ogni caso la tensione al Cielo, nel tentativo di abbeverare l’anima al bello apollineo. Lo sfondo è l’Arcadia: idilliaca, sconfinata, inquietante. Sopra meandri d’alvei d’acque cristalline, violate da rari picchi solitari occupati da asceti, l’incontro di gameti esterofili ha concepito nuova vita. Nella sequenzialità logico-temporale si fa nuova esistenza: dai voli sincronizzati all’incontro, da questo ultimo alla maternità. La madre, ancora avvolta nelle tuniche monastiche, esibisce il frutto della continuità. Nell’ingenuità del paradiso terrestre le “chioccioline erranti” s’avviano in un viaggio colonizzatore. Sulla litosfera incedono lenti i viandanti. Il lungo cammino ricomincia; il mito edipeo della ricerca di sé e della generante si prospetta lungo e faticoso e non è casuale che già i cuccioli s’avviino in un percorso di crescita e di esperienze portandosi sulle spalle  la dimora coclea.  Nell’ affabulazione mitologico-escatologica, Brancolini, forte del suo artificio dicendi, non estingue con la certezza la decodifica del simbolo, né innalza ponti tra l’onirico ed il razionale; egli lascia il dubbio e progetta ricerca. I fantasmi, i sogni e le incognite che solo la notte pone, nel gotico scenario dell’infinito nel tempo e nello spazio, al flebile chiarore della luna ritorna il raziocinio con il dilemma amletico del perché esserci.
Vincenzo Baratella




Mostre recenti
2008 - Modena, Centro studi Muratori, personale.
2008 - Mantova, Arianna Sartori Arte, personale.
2008 - Viterbo, Artefiera, part..
2008 - Firenze, Palazzo Vogel, “Polimorfica”, part..
2008 - Vienna A, Art Point 222, part..
2008 - Graz A, Akzenta art, part..
2008 - Augsburg D, Galerie 2 Fenster, part.
2008 - Venezia, Centro culturale S.Vidal, part..
2008 - Piombino LI, Galleria comunale, personale.
2008 - Reggio E., Artefiera
2009 -Torino, gall. Davico, personale
2009 - Rovigo, Studio Arte Mosè, personale, testo di V. Barbatella, personale
2009 - Reggio E., Artefiera.
2009 - Innsbrug A, Artefiera, a cura di Artpoint Firenze.
2010 - Novi MO, centro culturale @rtstudio.
2010 - Ratingen D, Museum der stadt, “Phantastische Welten”, a cura di A.H.Murken
2010 - Reggio E., Artefiera.
2010 - Venezia, Centro culturale S. Vidal , part. a cura di Artpoint Firenze.
2010 - Vienna A, gall. Artpoint 222,  part. a cura di Artpoint Firenze.
2010 - Taranto, gall. d’arte Agorà, presentazione di V. Barbatella, personale. 
2011 - Arezzo, Artefiera.
2011 - Reggio Emilia, Artefiera.
2011 - Voghera PV, Sala Pagano, personale (con Gerico).
2011 - Carpi (MO), Galleria Fontanella, personale
2011 - S. Giacomo d.S. (MN), Ca’ di Pom, personale
2011 – Firenze, Gall. Benvenuti, “Puerto Sebastian” part. a cura di Lucio Scardino.
2012 - Carpi (MO), Fondazione Cassa di Risparmio, “Contrappunto” (Braglia-Brancolini), cura di G. Ghidoni, personale.
2012 - Modena, Centro Studi Muratori, personale
2012 - S. Benedetto Po (MN), Refettorio monastico, mostra antologica “Attualità del Mito”, presentazione di M. Dall’Acqua.
2012 - Aschaffenburg D, Museen Kunsthalle Jesuitenkirche, “Phantastische Welten”, “von Surrealismus zum Neosymbolismus”a cura di Axel H. Murken, part.
2012 - Vienna A, gall. Artpoint 222, “Il mito nel tempo” mostra a cura di Artpoint Firenze.
2012 - Piacenza, Artefiera, a cura di Artpoint Firenze.

Bibliografia recente:
1990 - “Edi Brancolini: lettura iconologica di un diario del conscio profondo”, Renzo Margonari.
1994 - “Di fronte alla figura”, Michele Fuoco
1996 - “Rane, ranuncoli e belle addormentate”, N. Miceli, D. Pasquali, G. Segato.
1997 - “Brancolini, Fusi, Gerico e Nigiani: quattro pittori dello sguardo cristallino”, Giorgio Di Genova.
1998 - “I vizi capitali”, Giorgio Seveso.
2000 - “Navigazione ultima”, G. Segato.
2004 - “Gli inganni della pittura” M. Sciaccaluga.
2006 - “La vita nuova”, C. Gizzi, C. F. Carli.
2006 - “Edi Brancolini: due punti sull’infinito”, Edizioni Ghirlandina.
2008 - “Melancholie und Eros”, A. H. Murken.
2008 - “Kinder des. 20.Jahrhunderts”, A. H. Murken.
2008 - “Dante e Ovidio”, C. Gizzi.
2009 - “Storia dell’arte italiana del ’900”, Giorgio Di Genova.
2009 - “I giudizi di Sgarbi”, Vittorio Sgarbi.
2011 - “Phantastische Welten” - “Von Surrealismus zum Neosymbolismus”, A. H. Murken.
2012 - “Catalogo Sartori d’arte moderna e contemporanea”, Arianna Sartori.
Arianna Sartori, Vincenzo Baratella, Edi Brancolini alla Galleria Sartori.
Il mito: ieri, oggi e domani 
dal 10 gennaio al 7 febbraio 2013


 Personale di Edi Brancolini allo Studio Arte Mosè: 2009

Emanuela Prudenziato, Raimondo Lorenzetti, Edi Brancolini, Arianna Sartori.