mercoledì 20 marzo 2013

ARTE COME AUTOTERAPIA


ARTE COME AUTOTERAPIA
Mostra allo "Studio Arte Mosè"  di Rovigo
dal 16/03/2013 al 02/04/2013



L’arte per scongiurare le angosce.


Ai quesiti sulla vita, l’arte è stimolante veicolo nella ricerca della risposta: desiderio di una identità. E quando si indaga emergono le angosce. Nel difficile interscambio del consorzio sociale la più parte del genere umano è occupata a soddisfare i bisogni primari e di conseguenza evidenzia un  approccio labile ai quesiti teorici sulla serie delle problematiche che investono la sfera emozionale. Viceversa chi ha, e avuto, rapporti conflittuali con se stesso e con gli altri ha la consapevole necessità di rovistare tra le cassettiere del secretaire più intimo e di collocarsi in un oltre uomo. Quello che si guarda dentro dallo strapiombo, tra le montagne, immerso in un latte di nubi e nebbie. Analogo al Wanderer di Friedrich chi è sofferente mostra la tranquillità inquieta nell’accettazione delle proprie fobie. Subentra il desiderio di universalizzare il dolore e con la necessita di usare un linguaggio eclettico, una comunicazione poetica, quella dell’arte, della pittura, per trasmettere agli altri il modus operandi, per scongiurare le paure interiori; un’arte per costruire il totem. Bisogna salire sul palco e annunciare la profezia del come ri-proporsi; escludere l’inattuale linguaggio dei classici, dei perfezionisti, dei realisti esasperati, di chi ha rappresentato l’esteriorità, l’apparenza, la maschera, personam  tragicam: quanta species cerebrum non habet. Così l’artista “in conflitto” nell’estrinsecazione artistica esclude la raffigurazione della mera magnificenza estetica, anzi la grava con i pesi dell’imperfezione. Strappa il velo delle siluette apollinee e pone al fruitore la sconcertante verità nuda dell’essere. La personale visione del mondo, per quanto turbata e conturbante, sottolinea l’universalità del dolore e s’apre disponibile alla ricerca del piacere. E’ un ossimoro l’intero percorso esistenziale. L’opera è una varietà di radiografia, di analisi introspettiva, per scrutare ciò che è nascosto dentro di noi ed abbiamo timore di rivelare; nel contempo diventa tentativo di esorcizzare traumi assopiti, vissuti forse dalla più parte e mai condivisi, perché censurati dal superio sociale. Per la categoria d’artisti che rientrano nella sfera della “follia” è una pittura desueta, oltre gli schemi concettuali abituali: un nuovo urlo di Munch con lo scopo di superare a bracciate vigorose l’onda delle afflizioni. L’uomo naufrago nel turbine di una tempesta interiore ha la necessità di creare altari, immagini propiziatorie alla stregua dei progenitori. Questi nelle caverne di Lascaux, di Altamira imprimevano le mani imbrattate di ocra rossa sulle pareti delle caverne, accanto ai graffiti del bisonte, per lanciare un anatema, scongiurare il pericolo nella lotta impari uomo e animale e propiziare la forza per il raggiungimento dell’obiettivo con successo; il “genio incompreso” spoglia l’essere umano dai corollari estetici e mostra l’essenza intima. E’ sostanzialmente un’arte per auto mostrarsi, e per cercare unanimi consensi. C’è il bisogno di trovare una condivisione per porre una tregua psicologica per ciò che turba ed ha sconvolto. Il bisogno dunque di mettere sul tavolo dell’anatomopatologo i tabù dell’intera evoluzione, sezionati, classificati e ritratti affinché l’osservatore possa spartire con gli atri quello che ha provato e opportunamente evitato di rivelare. Solitamente l’artista turbato, incompreso, fobico, s’immerge tra la folla per gridare afono la sua ossessione, ma anche per nascondersi, come durante la bufera, nelle notti d’inverno, il bimbo vince il panico, con il lenzuolo tirato fin sotto il mento. I bimbi di Schiele, denutriti, violati, sono sostanzialmente i figli di un’umanità avariata; quelli che hanno sperimentato la brutalità dell’ “l’uomo nero”, senza riuscire a proteggersi, o meglio, avere protezione da figure parentali di riferimento. Le teme del mondo sono innumerevoli e come tali devono essere ingabbiate nelle tele. Nella necessità terapeutica di esibirsi la genialità borderline usa tonalità tendenti al  monocromo, efficace esempio in Gino Sandri, perché sono più  efficaci a esprimere la sofferente condizione di chi vive fantasmi all’interno di mura, impedito da barriere, bloccato da mattoni. Sono pure le denunce di Caruso. Tra follia e normalità il confine è arbitrariamente soggettivo; lo spettatore coglie soprattutto la dimensione non comune, non condivisa; fuori dagli schemi ci sono carcasse mummificate. Solipsistiche ripetitive espressioni maniacali che ripetono la sofferenza dell’intera umanità con la pretesa della innovativa scoperta della stessa e di proporne il rimedio. Nelle risultanti artistiche, già da Bosch, s’immagina il fetore di redivivi Oetzi, incartapecoriti, con i denti grandi appena trattenuti dagli alveoli, la pelle tesa sul corpo estraneo e le pupille in una midriasi di allucinazione e di morte; eppure la risultante artistica fa percepire dinamiche interiori. Si estrapola il desiderio di vivere e di curare lo stato di sofferenza. Nel comune denominatore emerge l’attesa: del silenzio, dell’uditore, della resurrezione dopo la morte-della-nascita. La madre è stata quasi sempre colpevole di aver procreato l’oggetto sofferente e dipendente. Il demone artistico, l’ispirazione per realizzare, il dipingere per universalizzare il tema al mondo altro non sono che sforbiciate finalizzate a tagliare il cordone ombelicale con la madre biologica e con la matrigna psicologica. Un concetto che ha analogie  leopardiane. Nonostante siano negative le visioni del mondo l’artista che  si libera tra genialità e pazzia non perde quasi mai il desiderio di godere quelle che ritiene comuni gioie. L’espressione artistica ha la valenza di autocelebrare la condizione diversa, ma anche quella di programmare il mutamento in meglio della vita stessa. Soprattutto negli espressionisti s’intravvede l’oro, il decoro e  il riverbero del sole, la luce, la speranza, ciò che è prezioso: la vita stessa. In fondo l’ergo sum è l’unica certezza anche nella follia; infatti attraverso l’espressionismo esistenziale esasperato, similmente a Schiele, è ribadito il nietzschiano concetto dell’umano, troppo umano che spinge all’autoconservazione e all’autoanalisi come cura.

                                          Vincenzo Baratella

testo e immagini non riproducibili