lunedì 9 febbraio 2015

OSVALDO FORNO

OSVALDO FORNO: di  sola  matita






DI   SOLA  MATITA

Ha un’acredine profonda. Palesemente graffiato dentro da una rabbia non contenuta, capace di esplodere contro coloro dai quali attendeva il meritato plauso. Osvaldo è il figlio incompreso, come già altri, di una Rovigo folcloristicamente contadina e pettegola. Osvaldo soffre l’indifferenza da chi auspicava corrispondenza d’interessi intellettivi al fine di esibire la sua opera. Una ricerca evolutiva che inizia negli anni sessanta. Nasce a Rovigo nel 1939; si presenta sulla scena artistica a vent’anni. Consegue il diploma all’Istituto d’arte di Castelmassa e successivamente insegna al Dosso Dossi di Ferrara. La sua è stata una continua ricerca tra gratificazioni e non corrisposti apprezzamenti coevi. Numerosi i riconoscimenti nelle rassegne italiane, padane e cittadine: premi a Copparo, San Benedetto Po, a Ferrara, alla Biennale di Venezia. La Cassa di risparmio di Padova e Rovigo acquisisce opere; alcune figurano al Magi di Pieve di Cento. Notevole la menzione di Margonari e l’inserimento nella storia dell’arte del Novecento redatta da Giorgio di Genova. Forno ha deciso di rimettersi in gioco nella personale allo Studio Arte Mosè con la strumentazione comunicativo-espressiva che caratterizza l’abilità dell’artista: la matita. Con essa non è possibile equivocare; la capacità emerge senza la mediazione della parola critica … il risultato è visibile, irrefutabile. La matita, sorta di primitiva bacchetta magica, segna la qualità dell’artista, senza concorrenze sleali. In effetti le arti del secolo appena passato hanno partorito gameti sterili: assurde sperimentazioni, informali senza neuroni pilota, computer art  per tirare forme e colori … Dopo la generazione critico-pensante degli anni settanta, la ripetizione. L’artista rodigino ha segnato il suo tempo. E’ stato  ricercatore all’occorrenza con l’entusiasmo di indagare, scoprire, proporre. E’ approdato a estrapolare idee sulla spazialità, dentro – fuori, sulle forme tra senso e non-sense, tra volumi e concettualismo. Osvaldo Forno riafferma l’abilità, oltre all’idea, con la sola matita; è in buona sostanza il mettersi in mostra come artista completo, capace di esprimersi con il mezzo più elementare e povero in arte. Manifesta l’esigenza di varcare il limite dell’incomprensione. La grafite dà segno netto, preciso, deciso, morbido, velato; tratto su tratto l’oggetto della comunicazione diventa reale, quasi palpabile. E’ una rassegna omogenea sotto il profilo tecnico quella allo Studio Arte Mosè; una quindicina di nature morte per riassaporare il gusto dell’oggetto e la perizia tecnica di Osvaldo. Le opere non eludono l’esperienza maturata in oltre mezzo secolo di attività artistica. Le cose della quotidianità danno rilievo all’abitudine di conservare ciò che richiama  affetti passati. Nature morte sulla carta, ma vive nel cuore poiché producono ricordi nell’associazionismo del pensiero. Sono i frutti, le tazze,  le cuccume, i fiori nel vecchio vaso di Murano e la manciata di pennelli nel consumato barattolo Ristora; elementi puliti, curati, trattati in punta sottile di mina, composti su tavoli improbabili, quasi d’anatomia; il tutto collocato in uno scenario di proiezioni optical fantastiche. Giochi di chiaro – scuro per delineare contorni e guidare le luci. Sono mele luccicanti, teiere di candida maiolica, più del biancore del foglio. Seguono i corollari: le stoffe, le tovaglie, i canovacci, messi a morire contorti, stropicciati, soffici su piani e orizzonti che la sola prospettiva verso “infiniti spazi e sovrumani silenzi” può esibire. Osvaldo con l’idillio leopardiano ritrova la sua stagione viva, produttiva, attuale contro momenti di sofferta, incompresa introspezione.                                       
Vincenzo Baratella

quattro momenti dell'inaugurazione mostra
 

La giornalista Irene Giolo, collaboratrice di remweb, ha incontrato l’artista Osvaldo Forno e le sue opere “di sola matita”:

Così semplice all’apparenza, ma così bella ed affascinante da restarne rapiti… Di fronte alle opere di sola matita di Osvaldo Forno, esposte dal 21 febbraio al 12 marzo 2015, presso lo Studio Arte Mosé di Rovigo non si può non restare incantati.
La meticolosità, la precisione e costanza con cui, oggetti semplici, quotidiani sono rappresentati dall’autore rubano lo sguardo e il cuore dell’osservatore.
Gli oggetti ritratti a colpo d’occhio non appaiono surreali, astratti (come ci si potrebbe aspettare dall’arte di Forno) ma concreti, talmente reali che sembrano uscire fisicamente dalla tela, vengono posti in primo piano, innalzati su tavolini, e si offrono in tutta la loro bellezza e veridicità.
Qual è allora il senso della mostra? E’ lo stesso autore che me ne parla.
Osvaldo Forno, che ho avuto il piacere di conoscere e con il quale mi sono intrattenuta un po’ aconversare, si presenta come una persona forte, caparbia, profonda, onesta, che crede fermamente nelle proprie idee e capacità. Ha sempre avuto un rapporto contradditorio con la città di Rovigo ma la sua arte deve molto all’ambiente rodigino e polesano: «Due sono le fortune di un artista nato in Polesine» - dice Forno - «la prima è la nebbia (una volta durava mesi) che permette di evadere, sognare, viaggiare con la fantasia e di realizzare opere straordinarie, la seconda la vicinanza a due fiumi, l’Adige e il Po, che ci uniscono e ci legano profondamente alla nostra terra».
L’artista ha sperimentato per tutta la sua vita tecniche e stili diversi, al fine di indagare al meglio e nel modo più profondo la realtà circostante, il rapporto tra l’uomo e la natura (spesso contradditori e in lotta), l’ambiente e la civiltà sia contadina sia urbana.
Un’indagine che, durante la sua carriera, lo ha portato a realizzare molte opere surreali, complesse, graffianti, emozionanti e ricche di pathos, le quali travolgono chi le osserva e ne comprende il vero significato.
Dopo aver utilizzato diverse tecniche e materiali per la creazione delle sue opere torna qui, con questa personale, all’uso della semplice matita: una «sorta di primitiva bacchetta magica» - come la definisce Vincenzo Baratella nella presentazione della mostra – con la quale Forno, compie una vera e propria rivoluzione contro «le incapacità tecniche e storiche degli artisti attuali» che si auto dichiarano all’avanguardia e “moderni”, ma che in realtà realizzano solo opere monotone e prive di essenza. Egli, al contrario, con un mezzo povero e semplice è capace di farprovare emozioni passate, magari dimenticate, che ritornano a galla, dove l’anima prova un sobbalzo e ci fa fermare a riflettere.
Le opere (circa una quindicina) rappresentano tutte nature morte: in primo piano vengono posti gli oggetti della quotidianità, che spesso si ripetononei vari quadri; gli oggetti hanno lo scopo di richiamare alla mente concetticome quello della semplicità, dell’abitudine, dellaroutine passata, che ogni giorno rischia di essere dimenticata. Ecco che l’artista ci offre limoni, mele, teiere e tazze, pennelli, occhiali da vista, palline da pingpong, cuccume, vasi contenenti foglie di maioliche accartocciate su se stesse. Tali oggetti sono lavorati con una precisione anatomica, il tratto è così netto, deciso ma anche morbido da farci venire voglia di prenderli in mano e quasi sembra di sentire il profumo dei limoni… Le composizioni si stagliano su particolari sfondi di optical art e i motivi appaiono quasi ossessivi nel loro ripetersi (spesso l’artista usa il motivo della scacchiera). Colpiscono molto questi sfondi particolari realizzati come se volessero narrare un racconto dentro un altro racconto, testimoni di una storia passata, nascosta, enigmatica, ma che incarna significati precisi.
Infine fanno da corollario le stoffe, i canovacci, le tovaglie a quadri (dove il motivo della scacchiera viene ripreso) stropicciati e accartocciati su se stessi in una sorta di spazio che sembra dilatarsi all’infinito, oltre l’orizzonte.
Ogni quadro racchiude lo studio, la passione, la voglia di capire la realtà tipiche di Osvaldo Forno. Si tratta di opere concrete ma solo in apparenza. E’ lo stesso autore a mettermi in guardia: gli oggetti che egli ha disegnato sono sicuramente “reali”, in quanto divengono portavoce di una realtà concreta, ossia quella contadina, povera economicamente dai valori forti e intaccabili ma, al contempo, si trasformano in oggetti sublimi, ideali, simboli di un’idea o concetto che va oltre la realtà fisica e ci fanno cogliere le sfumature, nonché i veri significati e l’autenticità della vita.
C’è la necessità di fermarsi: abbiamo bisogno di tornare indietro, di rivedere la nostra storia e le nostre origini, perché solo così possiamo vivere meglio il presente. Finché parlavamo mi ha colpito molto una sua frase: «Io non guardo mai al futuro perché quello non lo conosco. Guardo sempre al passato perché quello l’ho vissuto e solo da esso posso imparare a migliorare e ad andare avanti. Inoltre sono convinto che, in tempi così duri e aspri, solo la bellezza (come l’arte) ci può ancora salvare».
Un ringraziamento particolare lo vorrei rivolgere all’artista stesso che mi ha permesso di entrare nel suo mondo e nella sua arte straordinaria e ai due coniugi Vincenzo Baratella ed Emanuela Prudenziato per avermi accolto nel loro Studio e avermi fatto sentire a casa.

Giolo Irene

Personale di Osvaldo Forno  allo Studio Arte Mosè

Via Fiume 18,  ROVIGO

Dal 21 febbraio 2015 al 12 marzo 2015

Orario: tutti i giorni feriali dal lunedì al venerdì dalle 16,30 alle 19,30.
L'artista Osvaldo Forno; sotto alcune sue opere a matita
Il tè è servito” (titolo dato da me in quanto ognuno in questa mostra deve essere libero di dare le proprie interpretazioni, così come mi ha suggerito lo stesso autore). Sempre oggetti semplici che rimandano ad un’azione così “banale” come quella di bere un tè ma che oggi quasi è assurda da fare. Siamo sempre di corsa e per fermarsi ad assaporare questa bevanda, magari in compagnia,  è quasi improponibile. Colpiscono le due palline in primo piano che apparentemente contrastano con la composizione. In realtà l’artista le raffigura in quanto adora giocare a pingpong. Infine la tovaglia, a scacchi grandi, ricorda le tipiche tovaglie di una volta, che alcuni dei nostri nonni ancora possiedono nei cassetti. (Dott:ssa Irene Giolo)

Profumo”, una delle opere più significative in mostra. Rappresenta tre oggetti simbolici: due mele poste in primo piano rispetto alla boccia di profumo richiamano il passato dell’artista. Egli infatti era solito mettersi in tasca delle mele che trovava dappertutto; il profumo, invece, rimanda all’oggi, al presente, all’effimero e alla materialità e contrasta con la semplicità delle mele.( Dott.ssa Irene Giolo)