giovedì 28 aprile 2016

BARATELLA Mosè, Preoccupanti coeve verità

Comunicazione stampa:
Retrospettiva   tematica  sull’opera di  Mosè Baratella:
preoccupanti  coeve verità di Mosè

DAL 30/04/2016  AL 19/05/2016

allo Studio arte Mosè, Via Fiume, 18, Rovigo

Sabato 30 aprile 2016 alle ore 18, inaugurazione presso lo Studio Arte Mose’ di Rovigo.

Vincenzo Baratella, curatore della retrospettiva,  illustra  peculiari tematiche sviluppate dall’Artista rodigino durante gli anni di piombo in Italia.

Mosè Baratella (1919-2004) ha dedicato l’intera vita all’Arte e per l’Arte. Alla vigilia della celebrazione del centenario dalla nascita, la Galleria rodigina, che si è onorata del nome, ha allestito una mostra su di  un particolare settore tematico: la rappresentazione delle vicende successe in Italia durante gli anni di piombo e la ciclicità vichiana di attuali tristi eventi.
Le opere con modernissimo e singolare stile narrativo fanno emergere la profetica straordinaria anticipazione su preoccupanti coeve verità.
L’allestimento inizia con l’incipit pittorico nell’autoaffermazione d’Artista: autoritratto ad olio del 1938 e si conclude con un altro autoritratto eseguito pochi anni prima della morte; entrambi denotano la tecnica sicura, classica, con pennellate vigorose.
L’intenzione del curatore è quella di sottolineare lo stacco di stile dalla forma, legata agli schemi accademici, e i contenuti che si avvalgono di una pittura immediata, di getto, adatta al registro linguistico simbolistico e psicologico.
A corredo esplicativo della mostra il curatore ha presentato il catalogo: preoccupanti coeve verità di Mosè.
Coordinamento redazionale: Emanuela Prudenziato.
La mostra è gratuita e aperta tutti i giorni feriali dal lunedì al venerdì dalle 16,30 alle 19,30 fino al 19 maggio 2016.
Per info: studioartemose@live.it
“Studio Arte Mosè” è la galleria che Vincenzo Baratella ha voluto dedicare al padre.
Mosè Baratella (Pontecchio Polesine 17-11-1919 – Rovigo 23-4-2004) lo conobbi alla fine dei mitici anni Settanta, quando entrai a far parte del Gruppo Autori Polesani, fondato dal commediografo Miro Penzo. Il gruppo molto vivace era riuscito a raccogliere poeti, scrittori, storici e pittori, giovani e meno giovani, molti esclusi dal gotha della cultura rodigina ma anche accademici dei Concordi e storici della Minelliana nascente. Succedeva così che i pittori offrissero le proprie tele per premiare i poeti. A distanza di tempo, sfogliando le pagine del periodico “Autori Polesani”, affiorano le firme di grandi figure accanto a giovani in erba scomparsi dalla scena. Mosè Baratella, amico del poeta Alberto Marzolla, faceva parte di questo movimento, pur tenendosi in disparte. Baratella era un grande artista, che aveva dedicato tutta la vita alla pittura, alla scultura e alla grafica, riconosciuto e stimato fuori ma non negli ambienti chiusi e ristretti della sua città. Il lavoro, la famiglia, la moglie gelosa di tutti quei ritratti femminili, una Rovigo saccente e indifferente erano una prigione per i voli della sua arte. Alcuni dei suoi dipinti sono stati attribuiti a pittori di fama internazionale e Mosè ha fatto in tempo a subire questo ennesimo affronto. Ne vide uno – a pochi anni dalla morte - nella mostra Il Po in controluce, allestita a Rovigo al museo dei Grandi Fiumi. Non disse nulla – com’era nel suo stile. Forse malinconia o forse finalmente grande approvazione. Era consapevole del valore delle sue opere, ma si sentiva incompreso come Ligabue. Qualche centinaio gli autoritratti nei quali Baratella si rappresenta, spesso con le sembianze di Ligabue. Un'ossessione non momentanea ma lunga negli anni, affidata a cromatismi vivaci e intensi, a deformazioni formali provocanti, a occhi tristi e stralunati, a bocche spalancate, per esprimere un'inquietudine mai sopita, un grido di dolore e di rabbia, un'amarezza che lo faceva diventare Ligabue, Munch, Van Gogh, Napoleone, re, sultano, ciclista, corsaro, gallo, aquila, lepre. Padrone di mezzi e tecniche, succedeva che amici pittori ricorressero a lui per dipingere elementi un po’ difficili come le mani o altri particolari. Mosè acconsentiva e non chiedeva nulla. Assiduo frequentatore delle biennali, ha interpretato le correnti del Novecento, creando lo stile di Mosè. Uomo del proprio tempo, è passato dalla pittura en plein air, con angoli cittadini e paesaggi polesani, alle nature morte, ai ritratti, agli autoritratti, alle rappresentazioni dei temi sociali del periodo del dissenso, alla serie “le piazze d’Italia” fino alla “maternità”, un olio del 2003, a pochi mesi dalla morte. Quadri che avrebbero trovato degna collocazione solamente nella dimora di Peggy Guggenheim a Venezia. L’opera di Mosè cerca ora finalmente grandi spazi per essere goduta e apprezzata: un intero Roncale, un Roverella. Mosè teneva in casa rotoli di tela per tagliare ogni giorno il pezzo necessario. Regalava, vendeva o svendeva per pagarsi le sigarette Astor, i colori, le tele, le cornici, senza intaccare il suo modesto stipendio di impiegato. E dopo il lavoro, sempre per arrotondare, a dipingere madonnine per i devoti. A vederlo sembrava la persona più tranquilla ma, con il suo atteggiamento sornione, aveva dato filo da torcere ai gerarchi fascisti. No, il sabato fascista non era per lui: non voleva né sfilare né cantare Giovinezza. Preferiva il silenzio della guardina dei carabinieri a Polesella. A sera, era già a casa. Negli ultimi decenni di vita lo si poteva incontrare in piazza Vittorio Emanuele II, non alto, elegante, il cappello a larga falda, un Panizza di paglia di riso d’estate o un Borsalino di feltro d’inverno, la sigaretta in mano, poche parole, due grandi occhi azzurri e un fascio di tele o di disegni in una cartellina o arrotolati sotto il braccio per l'approvazione degli amici o di qualche acquirente. Se lasciava la casa di via Viviani, appena fuori le mura, lo faceva per raggiungere la quiete della campagna con il poeta Alberto Marzolla nella vecchia casa lungo il Canal Bianco. E qui fu incantato da due lavandaie, la Pina e la Renata Filippi, che ritrasse più volte negli anni Cinquanta e Ottanta. Il figlio Vincenzo sta cercando di rendere giustizia alla produzione abbondante e poliedrica del padre negli spazi della sua galleria, ritrovo di artisti veneti, friulani, toscani, lombardi, emiliani, romani. Qui sono passati in molti, pittori e critici d’arte. Alcuni, come Raimondo Lorenzetti e Toni Zarpellon, hanno avuto l’onore della Biennale; altri sono scomparsi ma sempre vivi e presenti nelle loro opere. L’ospitalità di Vincenzo e della moglie Emanuela Prudenziato – nipote del pittore Angelo – era riuscita a conquistare persino la ruvida scorza di Gian Antonio Cibotto. Fino a qualche anno fa, lo scrittore rodigino, dopo un saluto alla Madonna della chiesetta delle Fosse, amava trascorrere i pomeriggi in affabile conversazione sul divano della galleria. Allora si scioglieva e diventava dolcissimo mentre affioravano i ricordi del periodo romano, da Guttuso a Picasso, da Visconti a Fellini. Quel Cibotto che a Leo Longanesi, che gli chiedeva di ristampare Cronache dell’alluvione, aveva risposto “Mi consideri estinto”. Un sogno finalmente realizzato, a novant’anni, nella villa di viale Trieste, dove Gian Antonio incontra la dolce nipote Anna Maria quando torna da Roma e pochi amici rodigini.      ©Graziella Andreotti  


Mosè, Autoritratto, olio su carta, 1938
MOSE’

Nel corso della sua vita lavorò costantemente  per esprimere  le sue idee, lo  spirito libero di cui era “prigioniero”. Non si può parlare di Mosè se non in questi termini perché è l’artista che ricerca continuamente di rivelare l’idea, l’interpretazione della realtà circostante, il mondo in cui è vissuto. Ha saputo mappare la società, individuarne gli aspetti contraddittori, spiacevoli, benevolmente ipocriti, senza acrimonia, ma in modo razionale e chiaro, come la strategia del mondo quotidiano, apparentemente senza ombre. E Mosè con i suoi disegni,oli su carta rappresenta il razionale contorcimento  dei pensieri, dei comportamenti umani. L’astrazione, definizione tecnicamente impropria, nelle sue opere è la fotografia della  vita. I pezzi sparsi sulla carta, sulla tela sono un puzzle che è preferibile non ricomporre; troppo duro, doloroso riconoscersi in esso, meglio immaginare l’impossibile come realtà: “ le mattane” così le chiamava Mosè sono il suo pensiero più vero e profondo,l’affermazione dell’arte che legge oltre l’apparenza e recupera sempre  l’uomo con le sue incoerenze e fragilità.                    ©Emanuela Prudenziato
Mosè, Inquietanti coeve verità ... (Opera in catalogo)
La rassegna è recensita su Facebook  Arte Mosè Vincenzo
momento inaugurazione 30.4.16
art. 4.5.2016 su La Voce; sotto testo completo della giornalista Pavani Dott.ssa Maria Chiara:

A dodici anni dalla scomparsa del pittore rodigino Mosè Baratella (1919-2004) e alla vigilia della celebrazione del centenario dalla nascita, la galleria Studio Arte Mosè ha allestito una retrospettiva tematica sull’opera dell’artista: ”Preoccupanti coeve verità di Mosè”, inaugurata sabato scorso. La mostra riguarda un particolare settore tematico: la rappresentazione delle vicende accadute in Italia, durante gli anni di piombo e la ciclicità vichiana di attuali tristi avvenimenti. Le opere, cioè, con singolare stile narrativo, anticipano profeticamente coeve verità. “Fino ad oggi-ha detto Vincenzo Baratella-curatore della rassegna, ho voluto presentare dipinti di mio padre dai quali emergesse soprattutto la qualità indiscussa della sua tecnica, sicura, classica, con pennellate vigorose, ora questa retrospettiva esplicita, invece, il suo pensiero, anche se scomodo: l’arte come messaggio politico-sociale. La mostra, che si fregia di un catalogo esplicativo sulla vita e l’opera di Mosè Baratella, propone l’incipit pittorico dell’artista con un autoritratto giovanile, olio su carta, del 1938, dove l’originale pennellata azzurrina che investe lo sfondo e poi dipinge il viso e cola sul busto, evidenzia l’acerba bellezza dei tratti del volto e, nel contempo, l’espressione già sicura dell’artista. Autore di alcuni autoritratti, la rassegna si conclude con quello dell’autore anziano e sofferente, di un impressionante realismo, mentre le altre opere, una ventina, presentano contenuti resi con una pittura immediata, di getto, che segue un registro linguistico simbolistico e psicologico. Mosè Baratella, antifascista convinto e spirito libero, negli anni ’70, ha voluto rappresentare tutta la società del momento, “individuandone gli aspetti contraddittori, spiacevoli, benevolmente ipocriti, senza acrimonia, ma in modo razionale e chiaro”, come scrive Emanuela Prudenziato nel catalogo. L’Italia, infatti, in quel periodo subiva le incongruenze della modernizzazione e dei nuovi orientamenti politici e culturali che portarono ad una serie di riforme come il divorzio, il diritto di famiglia, l’abolizione dei manicomi e l’aborto, suscitando reazioni non sempre positive nella popolazione e che il nostro ha evidenziato nelle sue opere. Ci riferiamo a “Figli mai nati”, olio su carta, quadro drammatico in cui al centro una figura femminile si disfa di tanti piccoli feti, attorniata da miriadi di volti minacciosi che alimentano la sua crisi esistenziale. Anche il dinamismo delle volute pittoriche e i cromatismi che accostano il rosso sangue al nero e al grigio contribuiscono al forte impatto emotivo. Alludiamo ancora al cambiamento dei costumi, come l’emancipazione femminile, evidente nel dipinto “Soggiogato”, dove la donna, finalmente seduta sul trono, domina l’uomo di cui tiene la testa, mentre ai suoi piedi, si agitano migliaia di figurette, simbolo di una società confusa. Insieme alla libertà sessuale, Mosè non esita a denunciare la licenziosità dei costumi anche in ambito clericale, come “Sacro e profano”, che presenta un prelato con tanto di mitria, felicemente ritratto tra due belle fanciulle. Ma l’artista, nel ’79 propone anche il malessere sociale e i temi forti della stragi di stato, con le violenze faziose tra rossi e neri e lo fa nella mostra “Piazze d’Italia”, nella galleria “L’incontro” del pittore Mastro Pietro di Rovigo. Così anche il decennio tra il 1970 e il 1980 è stato fissato su tela con forza instancabile, per sottolinearne con metafore e simbologie gli errori, ma sempre salvando l’uomo, perché l’artista attraverso il simbolo, come sottolinea il critico Baratella, “intende espettorare la ridda della malvagità con l’intenzione di recuperare il mondo pulito”. La retrospettiva sarà visitabile fino al 19 maggio, dal lunedì al venerdì, dalle ore 16.30 alle 19.30. ©Maria Chiara Pavani