mercoledì 11 ottobre 2017

Mosè Baratella: Che cosa è successo?
























Mosè Baratella, il pittore del Canal Bianco.
di Graziella Andreotti
“Studio Arte Mosè” è la galleria che Vincenzo Baratella ha voluto dedicare al padre Mosè e che gestisce assieme alla moglie Emanuela Prudenziato, cugina del pittore Angelo Prudenziato, nel comune amore per l’arte. Unica galleria a Rovigo ad avere il coraggio di proporre ogni mese giovani artisti sconosciuti accanto a chi la fama l’ha già conquistata.
Mosè Baratella (Pontecchio Polesine 17 novembre 1919 – Rovigo 23 aprile 2004) lo conobbi alla fine dei mitici anni Settanta, quando entrai a far parte del Gruppo Autori Polesani, fondato dal commediografo Miro Penzo. Il gruppo molto vivace era riuscito a raccogliere poeti, scrittori, storici, pittori, giornalisti, librai, giovani e meno giovani, molti esclusi dal gotha della cultura rodigina ma anche accademici dei Concordi e storici della Minelliana nascente. Succedeva così che i pittori offrissero le proprie tele per premiare i poeti. A distanza di tempo, sfogliando le pagine del periodico “Autori Polesani”, affiorano le firme di grandi figure accanto a giovani in erba scomparsi dalla scena.
Mosè Baratella era stato coinvolto dal poeta Alberto Marzolla, compagno di classe alle elementari e poi partigiano internato nei campi in Germania. Faceva parte di questo movimento di autori polesani e veneti, pur tenendosi in disparte.
Baratella era un grande artista, che aveva dedicato tutta la vita alla pittura, alla scultura e alla grafica, riconosciuto e stimato fuori ma non negli ambienti chiusi e ristretti della sua città, dove a dominare erano i professori di disegno. Erano gli anni di Angelo Prudenziato, di Gisella Breseghello, di Edoardo Chendi, di Osvaldo Forno, di Gabbris Ferrari, di Beppe Giuliani, di Ilario Bellinazzi. Lo scultore Virgilio Milani, dopo aver lasciato tante terrecotte e sculture in marmo e in bronzo, moriva nel 1977. Rimaneva Cesare Zancanaro con le sue opere in ferro, rame e argento. Paolo Gioli, fotografo sperimentale, pittore e regista, ospite di Milani fin dalla giovinezza nella casa di Viale Trieste, tentava l’America, Roma, Milano, Venezia. Ora vive in romitaggio con moglie e gatti nella campagna di Lendinara sotto l’Adige. Forse l’unico noto nell’ambito delle biennali veneziane, è sconosciuto al grande pubblico polesano.
Mosè Baratella non poteva lasciare come Gioli le atmosfere nebbiose della sua città. Il lavoro, la famiglia, la moglie gelosa di tutti quei ritratti femminili erano una prigione per i voli della sua arte.
Il figlio Vincenzo ricorda un calcio dato dal padre a un ritratto che rappresentava una signora in costume da bagno, incontrata sul lago di Como, con la quale c’era stato anche un rapporto epistolare ma forse nulla di più. Quel calcio sacrilego aveva procurato uno strappo alla tela ma aveva portato la pace in famiglia.
Una dolce signora di Rovigo racconta gli incontri con Mosè, presso la libreria Spaziolibri di Giolo Cattaneo, a parlare d’arte, a godere con lui delle opere terminate la notte prima.
Alcuni dei suoi dipinti sono stati attribuiti a un pittore di fama internazionale – ma di quel pittore è stato aggiunto solo il nome - e Mosè ha fatto in tempo a subire questo ennesimo affronto. Ne vide uno – a pochi anni dalla morte – in una grande mostra allestita a Rovigo. Borbottò qualcosa ma non reagì, – com’era nel suo stile. Forse malinconia o forse finalmente grande approvazione in un’identità rubata.
Sono migliaia le opere di Baratella. Impossibile contare quelle presenti nelle case. Ogni tanto si incontra qualcuno, felice di possedere una natura morta, un ritratto, un paesaggio, un olio, un gessetto, una matita di Mosè.
Era consapevole del valore delle sue creazioni, ma si sentiva incompreso come Ligabue, si sentiva – a torto – inferiore agli accademici. Qualche centinaio gli autoritratti nei quali Baratella si rappresenta, spesso con le sembianze di Ligabue. Un'ossessione non momentanea ma lunga negli anni, affidata a cromatismi vivaci e intensi, a deformazioni formali provocanti, a occhi tristi e stralunati, a bocche spalancate, per esprimere un'inquietudine mai sopita, un grido di dolore e di rabbia, un'amarezza che lo faceva diventare Ligabue, Munch, Van Gogh, Napoleone, Beethoven, re, sultano, ciclista, corsaro, gallo, aquila, lepre.
Padrone di mezzi e tecniche, succedeva che amici pittori ricorressero a lui per completare una mano o un occhio che non venivano. Mosè acconsentiva e non chiedeva nulla.
Studiava, leggeva libri d’arte, conosceva tutto dei grandi pittori del passato. Assiduo frequentatore delle biennali, ha interpretato le correnti del Novecento, creando lo stile di Mosè.
Uomo del proprio tempo, è passato dalla pittura en plein air, con angoli cittadini e paesaggi polesani, alle nature morte, ai ritratti, agli autoritratti, alle rappresentazioni del periodo del dissenso, alla serie “le piazze d’Italia” fino alla Maternità, un olio del 2003, a pochi mesi dalla morte. Negli ultimi decenni del Novecento, abbandonando la pittura accademica da cavalletto e da atelier, si apre ai temi sociali, alle battaglie sindacali, alle contestazioni. E la sua reazione al passato esplode in soggetti nuovi, in linee e tonalità che esprimono il divenire di una cultura in rapida evoluzione. Quadri che avrebbero trovato degna collocazione solamente nella dimora di Peggy Guggenheim a Venezia.
L’opera di Mosè cerca ora finalmente grandi spazi per essere goduta e apprezzata: un intero Roncale, un Roverella. Ma Rovigo non è cambiata.
Mosè teneva in casa rotoli di tela per tagliare ogni giorno il pezzo necessario. Costretto spesso a usare l’olio sulla carta – costava meno di una tela - per non rinunciare alla prorompente vena creativa. Vendeva o svendeva per pagarsi le sigarette Astor, i colori, le tele, le cornici, senza intaccare il suo modesto stipendio di impiegato. E dopo il lavoro, a sera, sempre per arrotondare, a dipingere madonnine per i devoti.
A vederlo sembrava la persona più tranquilla ma, con il suo atteggiamento sornione, aveva dato filo da torcere ai gerarchi fascisti. No, il sabato fascista non era per lui: non voleva né sfilare né cantare Giovinezza, Faccetta nera o La sagra di Giarabub. Preferiva il silenzio della guardina dei carabinieri a Polesella. A sera, era già a casa.
Negli ultimi decenni di vita lo si poteva incontrare in piazza Vittorio Emanuele II, non alto, elegante, il cappello a larga falda, un Panizza di paglia di riso d’estate o un Borsalino di feltro d’inverno, la sigaretta in mano, poche parole, due grandi occhi azzurri e un fascio di tele o di disegni in una cartellina o arrotolati sotto il braccio per l'approvazione degli amici o di qualche acquirente.
Se lasciava la casa di via Viviani, appena fuori le mura, passato il Volto di San Bortolo, lo faceva per raggiungere la quiete della campagna con il poeta Alberto Marzolla, con il professor Alfredo Turolla e con gli amici di Pontecchio e Bosaro nella vecchia casa lungo il Canal Bianco. E qui fu incantato da due lavandaie, la Pina e la Renata Filippi, che sciacquavano i panni nelle acque che bagnavano la Campagna Grande – ora del conte Valier - che dipinse più volte negli anni Cinquanta e che riprodusse negli anni Ottanta. Il figlio Vincenzo conserva una foto scattata dal fratello delle Filippi con lo stesso soggetto.
Vincenzo sta cercando di rendere giustizia alla produzione abbondante e poliedrica del padre negli spazi della sua galleria, ritrovo di artisti veneti, friulani, toscani, lombardi, emiliani, marchigiani, romani. Qui sono passati in molti, pittori e critici d’arte. Alcuni, come Raimondo Lorenzetti e Toni Zarpellon, hanno avuto l’onore della Biennale; Vico Calabrò ha illustrato i canti di Bepi De Marzi; altri sono scomparsi ma sempre vivi e presenti nelle loro opere conservate presso grandi pinacoteche.
Qui si incontrano artisti, storici, poeti, giornalisti, musicisti, polesani e non polesani, per parlare d’arte e di cultura. Si può dire che lo Studio Arte Mosè abbia preso il posto dello studio di Antonio Romagnolo, storico e critico d’arte, quando era direttore della pinacoteca dell’Accademia dei Concordi. La vera accademia, il vero gotha rodigino è qui nel colore e nelle suggestioni dell’arte, nell’amore e nella gioia che Vincenzo ed Emanuela sanno trasmettere. Finalmente un luogo in cui si può ancora parlare d’arte, a tu per tu con l’artista. E da qualche mese è entrata anche la musica con il maestro Pajarini ad allietare le vernici.
L’ospitalità di Vincenzo e della moglie Emanuela era riuscita a conquistare persino la ruvida scorza di Gian Antonio Cibotto. Fino a qualche anno prima della morte, lo scrittore rodigino, dopo un saluto alla Madonna di Pompei nella chiesetta delle Fosse, amava trascorrere i pomeriggi in affabile conversazione sul divano della galleria, a pochi passi dalla sua villa in Viale Trieste. Allora si scioglieva nei ricordi del periodo romano, da Guttuso a Picasso, da Visconti a Fellini. Quel Cibotto che a Leo Longanesi, che gli chiedeva di ristampare Cronache dell’alluvione, aveva risposto: “Mi consideri estinto”. (Copyright Dott.ssa Graziella Andreotti)



MOSE’ BARATELLA:  
Che cosa è successo? 
E’ la continuazione delle tematiche, sempre di attualità, emerse in parte nelle opere esposte al pubblico nella rassegna di un anno fa. In quella occasione proposi disegni, gessetti, matite, oli sotto il comune denominatore Preoccupanti coeve verità di Mosè. L’ingente produzione artistica di Baratella trovò fonte d’ispirazione dalle plurime esigenze di emancipazione, dagli avvenimenti socio-politici, dai mutamenti di costume che si svolsero, anche attraverso aperta violenza, durante l’ultimo trentennio del secolo scorso. Buona parte dell’opera pittorica di Mosè Baratella non fu immune dall’attrazione ispiratrice nei fenomeni sociali e di cambiamento troppo veloci nel passaggio e altrettanto incisivi e decisivi sulla mentalità comune, costretta a mutare modo di vita e di pensare in modo rapido e repentino. Mosè s’accorse che era finito il tempo del paesaggio estemporaneo, en plein air, delle nature morte pseudo accademiche con lo sfondo scuro, delle figurine statiche a sanguigna.  In una manciata di decenni, dalla fine della seconda guerra mondiale agli anni Settanta, Ottanta, le innovazioni e, proporzionali a queste, i modelli di vita ostentarono i cambiamenti e l’adattamento ad essi. Dal carro all’autovettura popolare, dalla donna sottomessa nella famiglia patriarcale al sex symbol, alla emancipazione, all’autodeterminazione nel  procreare, alle pari opportunità con la velocità dello tsunami. Dalla neonata repubblica, dopo il Ventennio, emergono, con le ricostruzioni ed il boom, le battaglie sindacali, gli scioperi, gli statuti, le tutele di categoria. S’alternano i partiti e con essi destra, centro e sinistra… poteri e scontri forti che sfociano in stragi, attentati e anni di piombo. Mosè, il pittore da atelier come quelli della sua generazione, appese il grembiule al cavalletto, e pur non ignorando la sua produzione che garantiva la qualità tecnica, formale e contenutistica delle opere  legate al realismo, a connotazione museale - i ritratti e gli autoritratti seguirono questa metodica fino all’ultimo giorno di vita dell’artista -, mostrò spiccato interesse per il sociale nelle più complesse articolazioni. I temi sviluppati si estendevano dai fatti  di cronaca, mai fine a se stessi, alle discutibili esibizioni di una società incanalata nel flusso di torrente mutevole. Un fil rouge che lega  l’opera di Mosè all’effetto rappresentato al suo dante causa. La reazione al passato palesa avvenimenti di disagio nella massa e innesca un processo di avvenimenti consequenziali ai quali c’è dipendenza pure ai giorni nostri e per i quali sorge il quesito: come e cosa è successo? In questo stile la narrazione di Mosè Baratella anticipa gli effetti della realtà a lui contemporanea. Ciò è un pregio che lo rende ex grege tra gli artisti del Novecento.  Vincenzo Baratella