DI SOLA MATITA
Ha
un’acredine profonda. Palesemente graffiato dentro da una rabbia non contenuta,
capace di esplodere contro coloro dai quali attendeva il meritato plauso.
Osvaldo è il figlio incompreso, come già altri, di una Rovigo
folcloristicamente contadina e pettegola. Osvaldo soffre l’indifferenza da chi
auspicava corrispondenza d’interessi intellettivi al fine di esibire la sua opera.
Una ricerca evolutiva che inizia negli anni sessanta. Nasce a Rovigo nel 1939;
si presenta sulla scena artistica a vent’anni. Consegue il diploma all’Istituto
d’arte di Castelmassa e successivamente insegna al Dosso Dossi di Ferrara. La sua è stata una continua ricerca tra
gratificazioni e non corrisposti apprezzamenti coevi. Numerosi i riconoscimenti
nelle rassegne italiane, padane e cittadine: premi a Copparo, San Benedetto Po,
a Ferrara, alla Biennale di Venezia. La Cassa di risparmio di Padova e Rovigo
acquisisce opere; alcune figurano al Magi
di Pieve di Cento. Notevole la menzione di Margonari e l’inserimento nella
storia dell’arte del Novecento redatta da Giorgio di Genova. Forno ha deciso di
rimettersi in gioco nella personale allo Studio Arte Mosè con la strumentazione
comunicativo-espressiva che caratterizza l’abilità dell’artista: la matita. Con
essa non è possibile equivocare; la capacità emerge senza la mediazione della
parola critica … il risultato è visibile, irrefutabile. La matita, sorta di
primitiva bacchetta magica, segna la qualità dell’artista, senza concorrenze
sleali. In effetti le arti del secolo appena passato hanno partorito gameti
sterili: assurde sperimentazioni, informali senza neuroni pilota, computer
art per tirare forme e colori … Dopo la
generazione critico-pensante degli anni settanta, la ripetizione. L’artista
rodigino ha segnato il suo tempo. E’ stato
ricercatore all’occorrenza con l’entusiasmo di indagare, scoprire,
proporre. E’ approdato a estrapolare idee sulla spazialità, dentro – fuori,
sulle forme tra senso e non-sense, tra volumi e concettualismo. Osvaldo Forno
riafferma l’abilità, oltre all’idea, con la sola matita; è in buona sostanza il
mettersi in mostra come artista completo, capace di esprimersi con il mezzo più
elementare e povero in arte. Manifesta l’esigenza di varcare il limite
dell’incomprensione. La grafite dà segno netto, preciso, deciso, morbido,
velato; tratto su tratto l’oggetto della comunicazione diventa reale, quasi
palpabile. E’ una rassegna omogenea sotto il profilo tecnico quella allo Studio
Arte Mosè; una quindicina di nature morte per riassaporare il gusto dell’oggetto
e la perizia tecnica di Osvaldo. Le opere non eludono l’esperienza maturata in
oltre mezzo secolo di attività artistica. Le cose della quotidianità danno
rilievo all’abitudine di conservare ciò che richiama affetti passati. Nature morte sulla carta, ma
vive nel cuore poiché producono ricordi nell’associazionismo del pensiero. Sono
i frutti, le tazze, le cuccume, i fiori nel
vecchio vaso di Murano e la manciata di pennelli nel consumato barattolo Ristora; elementi puliti, curati,
trattati in punta sottile di mina, composti su tavoli improbabili, quasi
d’anatomia; il tutto collocato in uno scenario di proiezioni optical fantastiche.
Giochi di chiaro – scuro per delineare contorni e guidare le luci. Sono mele
luccicanti, teiere di candida maiolica, più del biancore del foglio. Seguono i
corollari: le stoffe, le tovaglie, i canovacci, messi a morire contorti, stropicciati,
soffici su piani e orizzonti che la sola prospettiva verso “infiniti spazi e
sovrumani silenzi” può esibire. Osvaldo con l’idillio leopardiano ritrova la
sua stagione viva, produttiva, attuale contro momenti di sofferta, incompresa
introspezione.
La giornalista Irene
Giolo, collaboratrice di remweb, ha incontrato l’artista Osvaldo
Forno e le sue opere “di sola matita”:
Così
semplice all’apparenza, ma così bella ed affascinante da restarne rapiti… Di
fronte alle opere di sola matita di Osvaldo Forno, esposte dal 21 febbraio
al 12 marzo 2015, presso lo Studio Arte Mosé di Rovigo non si può non restare
incantati.
La
meticolosità, la precisione e costanza con cui, oggetti semplici, quotidiani
sono rappresentati dall’autore rubano lo sguardo e il cuore dell’osservatore.
Gli
oggetti ritratti a colpo d’occhio non appaiono surreali, astratti (come ci si
potrebbe aspettare dall’arte di Forno) ma concreti,
talmente reali che sembrano uscire fisicamente dalla tela, vengono posti in
primo piano, innalzati su tavolini, e si offrono in tutta la loro bellezza e
veridicità.
Qual
è allora il senso della mostra? E’ lo stesso autore che me ne parla.
Osvaldo
Forno, che ho avuto il piacere di conoscere e con il quale mi sono intrattenuta
un po’ aconversare, si presenta come una persona forte, caparbia, profonda,
onesta, che crede fermamente nelle proprie idee e capacità. Ha sempre avuto un
rapporto contradditorio con la città di Rovigo ma la sua arte deve molto
all’ambiente rodigino e polesano: «Due
sono le fortune di un artista nato in Polesine» - dice Forno - «la prima è la nebbia (una
volta durava mesi) che permette di evadere, sognare, viaggiare con la fantasia
e di realizzare opere straordinarie, la seconda la vicinanza a due fiumi,
l’Adige e il Po, che ci uniscono e ci legano profondamente alla nostra terra».
L’artista
ha sperimentato per tutta la sua vita tecniche e stili diversi, al fine di
indagare al meglio e nel modo più profondo la realtà circostante, il rapporto
tra l’uomo e la natura (spesso contradditori e in lotta), l’ambiente e la
civiltà sia contadina sia urbana.
Un’indagine
che, durante la sua carriera, lo ha portato a realizzare molte opere surreali,
complesse, graffianti, emozionanti e ricche di pathos, le quali travolgono chi
le osserva e ne comprende il vero significato.
Dopo
aver utilizzato diverse tecniche e materiali per la creazione delle sue opere
torna qui, con questa personale, all’uso della semplice matita: una «sorta di
primitiva bacchetta magica» - come la definisce Vincenzo Baratella nella
presentazione della mostra – con la quale Forno, compie una vera e propria
rivoluzione contro «le incapacità tecniche e storiche degli artisti attuali»
che si auto dichiarano all’avanguardia e “moderni”, ma che in realtà realizzano
solo opere monotone e prive di essenza. Egli, al contrario, con un mezzo povero
e semplice è capace di farprovare emozioni passate, magari dimenticate, che
ritornano a galla, dove l’anima prova un sobbalzo e ci fa fermare a riflettere.
Le
opere (circa una quindicina) rappresentano tutte nature morte: in primo piano
vengono posti gli oggetti della quotidianità, che spesso si ripetononei vari
quadri; gli oggetti hanno lo scopo di richiamare alla mente concetticome quello
della semplicità, dell’abitudine, dellaroutine passata, che ogni giorno rischia
di essere dimenticata. Ecco che l’artista ci offre limoni, mele, teiere e tazze,
pennelli, occhiali da vista, palline da pingpong, cuccume, vasi contenenti
foglie di maioliche accartocciate su se stesse. Tali oggetti sono lavorati con
una precisione anatomica, il tratto è così netto, deciso ma anche morbido da
farci venire voglia di prenderli in mano e quasi sembra di sentire il profumo
dei limoni… Le composizioni si stagliano su particolari sfondi di optical art e
i motivi appaiono quasi ossessivi nel loro ripetersi (spesso l’artista usa il
motivo della scacchiera). Colpiscono molto questi sfondi particolari realizzati
come se volessero narrare un racconto dentro un altro racconto, testimoni di
una storia passata, nascosta, enigmatica, ma che incarna significati precisi.
Infine
fanno da corollario le stoffe, i canovacci, le tovaglie a quadri (dove il
motivo della scacchiera viene ripreso) stropicciati e accartocciati su se
stessi in una sorta di spazio che sembra dilatarsi all’infinito, oltre
l’orizzonte.
Ogni
quadro racchiude lo studio, la passione, la voglia di capire la realtà tipiche
di Osvaldo Forno. Si tratta di opere concrete ma solo in apparenza. E’ lo
stesso autore a mettermi in guardia: gli oggetti che egli ha disegnato sono
sicuramente “reali”, in quanto divengono portavoce di una realtà concreta,
ossia quella contadina, povera economicamente dai valori forti e intaccabili
ma, al contempo, si trasformano in oggetti sublimi, ideali, simboli di un’idea
o concetto che va oltre la realtà fisica e ci fanno cogliere le sfumature,
nonché i veri significati e l’autenticità della vita.
C’è
la necessità di fermarsi: abbiamo bisogno di tornare indietro, di rivedere la
nostra storia e le nostre origini, perché solo così possiamo vivere meglio il
presente. Finché parlavamo mi ha colpito molto una sua frase: «Io non guardo
mai al futuro perché quello non lo conosco. Guardo sempre al passato perché
quello l’ho vissuto e solo da esso posso imparare a migliorare e ad andare
avanti. Inoltre sono convinto che, in tempi così duri e aspri, solo la bellezza
(come l’arte) ci può ancora salvare».
Un ringraziamento
particolare lo vorrei rivolgere all’artista stesso che mi ha permesso di
entrare nel suo mondo e nella sua arte straordinaria e ai due coniugi Vincenzo
Baratella ed Emanuela Prudenziato per avermi accolto nel loro Studio e avermi
fatto sentire a casa.
Giolo
Irene
Personale di
Osvaldo Forno allo Studio Arte Mosè
Via Fiume
18, ROVIGO
Dal 21 febbraio
2015 al 12 marzo 2015
Orario: tutti i
giorni feriali dal lunedì al venerdì dalle 16,30 alle 19,30.
L'artista Osvaldo Forno; sotto alcune sue opere a matita
“Il tè è servito” (titolo dato da me in
quanto ognuno in questa mostra deve essere libero di dare le proprie
interpretazioni, così come mi ha suggerito lo stesso autore). Sempre oggetti
semplici che rimandano ad un’azione così “banale” come quella di bere un tè ma
che oggi quasi è assurda da fare. Siamo sempre di corsa e per fermarsi ad
assaporare questa bevanda, magari in compagnia,
è quasi improponibile. Colpiscono le due palline in primo piano che
apparentemente contrastano con la composizione. In realtà l’artista le
raffigura in quanto adora giocare a pingpong. Infine la tovaglia, a scacchi
grandi, ricorda le tipiche tovaglie di una volta, che alcuni dei nostri nonni
ancora possiedono nei cassetti. (Dott:ssa Irene Giolo)
“Profumo”, una delle opere più
significative in mostra. Rappresenta tre oggetti simbolici: due mele poste in primo piano rispetto
alla boccia di profumo richiamano il passato dell’artista. Egli infatti era
solito mettersi in tasca delle mele che trovava dappertutto; il profumo, invece, rimanda all’oggi, al
presente, all’effimero e alla materialità e contrasta con la semplicità delle
mele.( Dott.ssa Irene Giolo)