sabato 15 febbraio 2014

TREGAMBE GIROLAMO BATTISTA:

RISTORO INTERIORE DALLA NATURA
NELL'OPERA GRAFICA DI GIROLAMO BATTISTA TREGAMBE
RISTORO  INTERIORE DALLA NATURA
Il mio cruccio, un risentimento legittimo per chi ama il bello, è di non averlo conosciuto prima. L’individuazione per “avere” un Artista è una delimitazione egoistica, forse condivisibile con coloro i quali ambiscono includere questo nella cerchia dei protagonisti. E’ un desiderio privato, peculiare degli storici dell’arte, dei critici, dei curatori in generale.  L’incontro compensa comunque il tempo andato. Con Tregambe si recupera pure il passato: quello esperito e ritrovato nel ricordo. La grafica del bresciano aspira l’età dell’oro, dell’innocenza, della rappresentazione arcadica. L’Artista esclude dall’opera la presenza umana. Indubbiamente un merito. Lo scopo è di evitare comparazioni temporali tra la modernità contingente e l’immutabilità della Natura. Leopardiana accezione dell’infinito nel tempo: perpetuare la gratificazione interiore attraverso ciò che circonda; uno scenario inviolato adatto a infondere sentimenti ed emozioni all’uomo stesso. Girolamo Battista è un incisore meticoloso, e si evince nel segno delle sue grafiche; effettivamente i toni scuri sono il risultato di un saturare con la ripetitività del segno. Un gioco di ombre e luce, di contrasti per rendere il volume dei corpi. Non si ravvisa la struttura portante del disegno dell’oggetto, sintetica alla stregua della grafica espressionista tedesca, né il virtuosismo estetico di Doré, né il morandiano reticolo per i volumi, tantomeno la raffigurazione concettuale di Dürer, con cavalieri apocalittici nel messaggio della Riforma. In Girolamo Battista  Tregambe si  arguisce una continuità romantica nell’accezione più genuina. La zolla di A. Dürer è il particolare da cui completare la globalità del paesaggio, l’interezza della sinfonia e l’avvio della poesia evocativa. Come non ricordare nell’ “Estate nel brolo” il ritratto indiretto degli affetti anche non esplicitamente espressi. La sedia impagliata su cui sedevano figure parentali; il quotidiano per esibire l’inculturazione attenta alle notizie; l’annaffiatoio per ravvivare i fiori del giardino … Sullo sfondo la casa: “crepuscolare” tranquillità domestica. Girolamo Battista mi disse che i paesaggi delle sue acqueforti sono ispirate e colte prevalentemente dai luoghi reali limitrofi a Botticino. Vero. Gorgogliano rivi d’acque cristalline sui quali poggiano ponti precari d’assi di legno, innevati per rendere ancor più immacolata la terra delle sue radici. Immagini di un languore inusuale, ricco di sentimento neoromantico. Poesia dunque fissata sulla lastra di rame, scavata dall’acido e stampata con l’amore di chi vuole rendere partecipe altri a sensazioni indicibili. Sono segni copiosi, innumerevoli, leggeri per dare sostanza nella morsura, contro il segno secco di punta. Al tatto la stampa palesa una sinfonia di leggere linee; il tratteggio entusiasta, come biscrome sullo spartito. Le pause: chiazze di luce; i riverberi del sole pallido tra maglie di una rete di recinzione ricoperta di galaverna. Intorno la soffice consistenza della nevicata … Da tutto quel freddo esterno Tregambe ravviva il calore interiore: incommensurabile amore per la vita e per il creato.

                                                                                                                          Vincenzo Baratella
©  Copyright Vincenzo Baratella 2014

Emanuela Prudenziato, Girolamo Tregambe e Vincenzo Baratella
Girolamo Battista Tregambe,  nella notte di Pasqua, si è addormentato per sempre. L’arte ha perso un eccelso Maestro e la società un membro di immensa umanità. L’uomo e l’artista: perdite incolmabili. Lo Studio Arte Mosè, Vincenzo Baratella, Emanuela  Prudenziato, commossi, partecipano al dolore della famiglia, dell’amico  Roberto Bodei e di quanti lo conobbero. Girolamo Battista è e resterà sempre  nei nostri cuori e la Sua maestria nell’incisione sarà testimonianza nel tempo. (Pasqua 2015) 
L'Artista Tregambe Girolamo Battista al lavoro.
Roberto Bodei e Girolamo Battista Tregambe
Girolamo Battista Tregambe e Vincenzo Baratella

Foto in Galleria con Artista 

Vincenzo Baratella: NOUMENO PER ZARPELLON



Vincenzo Baratella illustra il noumeno per Zarpellon:
un percorso tematico concettuale di cinquanta anni nell’Arte.


NOUMENO   PER   ZARPELLON


Nell’epoca della “mostra-mania” è arduo ricoprire il ruolo del curatore critico. Il più delle volte, per chi lo fa di mestiere -non è il mio caso-, rischia di sconfinare nelle fila dei pennivendoli: marinisti ridondanti di termini senza contenuti… La scopiazzatura delle frasi fatte, dei luoghi comuni delle metafore ovvie e obsolete.
La critica d’arte intesa come mestiere di avvocato di difesa dell’opera del pittore è ciò che si rileva tra i pieghevoli nelle personali con tanto di citazioni e forzati raffronti. Un management di epigrammi e massime da Lotto a Veronese, da Tiziano a Rembrandt, da Segantini a Schiele, da Klimt a Basquiat per far nascere dai neuroni: “la bellezza delle forme, il cromatismo equilibrato e la bravura a trecentosessanta gradi”. Sono intere cartelle e opere, critici e pittori con il demerito di contribuire, con la domanda e il consumo, a rincarare la carta, le tele e i colori. L’artista, con la A maiuscola, non ha bisogno di inutili parole, né di difensori dell’opera, tantomeno di penne al servizio del Mecenate; sa parlare di sé e per sé unitamente al prodotto dell’arte esibito. Toni Zarpellon è uno di questi. E in alcuni casi è stato problematico esporre a parole ciò che il suo animo ha mediato con l’opera. Oltre al perché e al come davanti agli occhi c’era il quadro e in sincronia emergeva la “spiegazione”.
Che cosa ho fatto? Conoscendo Toni da anni e condividendo un’amicizia spontanea e intellettuale ho solo interpretato l’intenzione, le motivazioni e gli stati d’animo. Non so se ciò sia tanto o poco, o sufficientemente adatto a scrivere di un Artista e della sua opera. Non vorrei scadere nella trattazione diarista, tantomeno nell’apologetica compattazione dei termini… deleteria forma per celebrare l’amicizia piuttosto del demiurgo. Il rischio è non fare quello che ho sopra contestato.
Toni è dunque artefice nel suo genere; è il pittore che graffia nervosamente i pastelli sulla carta, stende i colori senza la titubante paura degli accostamenti: viola e giallo, verde e rosso, grigi e blu.
Sono i suoi avvicendamenti emotivi: s’arrabbia e si consola; palesa sconforto e si rialza scrollando la polvere della banalità, diffusa alla stregua dell’ignoranza. Effettivamente chi crede di sapere è di gran lunga maggiore di coloro che “sanno di non sapere”, così come abbondano i commentatori degli storici della filosofia senza essere filosofi, pur professandosi tali. Perciò nell’oceano della mediocrità tentare di essere critico, con serietà mentale, vale dire far filosofia dell’arte: speculare su di un fenomeno umano interagente con la società e proiettato al futuro con le Weltantschuungen condivise o condivisibili.
Legittimare attraverso l’indagine speculativa il “noumeno” prodotto artistico del bassanese. Il tentativo è quello di superare “la barriera del suono”: un volo pindarico per mettere “in mostra” l’Artista e la sua arte. L’uomo l’ho conosciuto bene. Nella mente ho ritagliato le immagini che ritengo più significative: la sigaretta fumigante tra le dita e l’occhio fisso oltre la mia presenza, intento a sintetizzare il paesaggio dell’Altopiano.
Sono stato migrante nel suo studio ed ho visto, non amato nella concupiscente frenesia della soddisfazione del piacere, le sue “donne”. I nudi: nulla più di terribilmente duro, antiestetico oltre l’obesità di Rubens, introspettivi fino all’ultimo atto dell’analisi psicologica. Non ho visto donne sdraiate sui canapè ricoperti da asciugamani; sopra ai teli da bagno c’erano presenze scomode che si esibivano su improvvisati banchi di dissezione. Non certo la vecchia lezione di Rembrandt, fredda, morta, distaccata esclusivamente scientifica, ma una inusuale vivisezione senza liquidi biologici sparsi. Stanche, tristi, ritorte in posizioni fetali -posizione del ritorno al piacere-, abbandonate nell’esibire una sensualità non sfruttata, ho visto un’altra, autentica immagine della donna. Sdraio, divani, poltrone, foderate di teli colorati, non erano altro che i tavoli d’anatomia sui quali si esamina l’animo e Toni fa la biopsia introspettiva e comparativa.
Seziona i sentimenti e concretizza il momento del transfert. La donna spogliata non è oggetto (mai l’improprio paragone con le mariline pop), ma protagonista di un piacere intimo, di una sofferenza, di un’esibizione, di un confronto, di una compartecipazione con il mondo. Toni è veicolo; traduttore per i più di uno stato emotivo con una immagine fruibile.
Azzardai un paragone settoriale con l’analisi soggettiva fatta dagli espressionisti tedeschi; accettò il giudizio, tuttavia entrambi siamo consapevoli che trattasi di solo una tangente che condivide i temi e il periodo. In effetti Zarpellon non è un espressionista, sebbene ne abbia colto lo spirito.
Gli occhi incavati e circoscritti da profonde occhiaie, innaturali per la tipologia europide, esibiscono la fermezza contemplativa: guardare senza vedere, lasciando trasparire quello che l’animo ha da mostrare. C’è nella fisiognomica dei volti il recupero della negritudine, già fatta vedere da Picasso a Pechstein; modelli recuperati dal mito del buon selvaggio. Scomparsi dunque schemi non esoterici, ingenui forse, non inclusivi a meccanicismi esaltanti il consumismo né agli ingranaggi dell’economia perversa ed oligarchica.
I valori incuneati tra i lobi cerebrali, del superio buono, catechizzati, caritatevoli, moralmente sincroni al potere, servizievoli e controriformisti da cinque secoli in Toni sono divenuti opinabili e, in alcune situazioni, tramontati in lento e subdolo tradimento. In ciò ravviso la continuità nell’analoga crisi delle certezze interiori esplicitata dalla poetica espressionista.
Colpevole chi? Ha contribuito la macchina, in nome del progresso, a soffocare il libero pensiero del singolo. Il processo produttivo, conseguenza diretta del crescente tecnicismo, ha massificato i linguaggi “personali”, settoriali, limitando di fatto la lotta sociale per abbracciare deleteri prodotti dell’ingegno: arti usa-e-getta. Il recupero del banale per fruire oggi e gettare domani: l’arte popolare. La pop art.
Se giunse positivo a Pier Paolo Pasolini l’uso della terminologia tecno-popolare come mezzo per l’inculturazione sociale dopo il secondo conflitto e veicolo per la comunicazione da un capo all’altro della penisola, non si può legittimarne per sempre l’efficacia. Indubbiamente utile il messaggio uniforme, semplice di Mario Soldati nel singolare viaggio per l’Italia per l’utilizzo unitario della lingua; dannoso il perseverare dagli anni sessanta allo scopo di mantenere lo standard culturale medio-basso. Il programma globale delle grandi potenze: la zuppa Campbell e la Coca Cola di moda sulle tavole come le modelle platinate. Donne, bibite, sigarette, detersivi e zuppe sono prodotti soggetti a prezzo e dismissione. Mel Ramos palesa la metamorfosi da Wonder Woman a Belle Noiseuse.
Con la stessa velocità del prendere-consumare-buttare il mercato immette lavatrici, televisioni, frigoriferi, telefoni, cellulari, tablet e smartphone, … E se i primi sono abbastanza statici nella loro evoluzione e segnando utilità, i mezzi di comunicazione hanno avuto crescita esponenziale, inversamente proporzionale all’utilità individuale e direttamente con quella del potere, limitando lo sviluppo critico del pensiero. Nello stato di semicoscienza ne hanno approfittato i totalitarismi, i grandi fratelli, i persuasori occulti.
Effettivamente l’uomo pensante denuncia le imposizioni ideologiche e l’economia delle multinazionali responsabili di aver creato i mostri. Sono tali le puttane e i militari di Grosz, di Otto Dix, le fisiognomiche grottesche di Ensor … mostri dei Ventenni prima, dopo e … senza dubbio ancora per … sempre.
Zarpellon non esita a mostrare la crocifissione della personalità, peggiore di quella fisica. Il dio-uomo, neopositivista, che ha scongiurato le paure dell’ignoto, della malattia e del trascendente nell’annuncio nietzschiano del “dio è morto” è stato ammazzato proprio dalla sua creatura: la macchina.
Si capovolgono le certezze. In Metropolis la bellissima creatura s’appropria dei desideri del suo costruttore per diventare incontrastata dominatrice. Già i germi del malessere sono fissati nei fotogrammi del cinema espressionista tedesco di Lang. Analoga situazione l’ho sentita in Toni: sofferenza nell’afonia ostruttiva al dialogo; la comunicazione è sintetica, essenziale nel tratto forte e priva di virtuosismi manieristi, … espressionista dunque come l’universalità del dolore. Il canale comunicativo del bassanese è scarno allo scopo di giungere direttamente al destinatario, una pluralità di sottocodici espressivi limiterebbe la trasmissione delle visioni del mondo.
Alla Sorbona, i sessantottini contestarono le hegeliane teste di legno; stesse responsabili della massificazione e del livellamento della cultura sotto egida del pensiero di stato; gli spiriti liberi, i neo galilei, i marx, i marcuse, gli horkeimer, i brutti-cattivi … hanno lasciato più di quanto abbia fatto la “cultura” ufficiale.
Una schiera di creativi borderline che prima di morire sui lidi di Malta hanno realizzato, e potrebbero ripetere, il ritratto di attuali madonne proletarie. Ovviamente ci sono vincoli e freni alle opportunità espressive, perché c’è un filtro censorio difficilmente frangibile tra l’opinione massificata e l’idea innovativa artistica.
All’artista che rifiuta il compromesso con la cultura della tradizione imposta dalla politica di stato attraverso i media è preclusa anche la possibilità di mostrare; il dissidente è crocifisso, è messo al confino in nuove Ventotene.
Toni evade dal cerchio malefico e si rende libero dipingendo le cave dismesse dell’Altopiano. La Cava di Rubbio viene colorata con teste d’uomini e di animali. Fissa anime inquiete con occhi sbarrati: i suoi alla tensione di spiegare il noumeno, il quid oltre la fisica per aprire le porte dell’intelletto alla libera circolazione delle idee.
La cava dipinta assume il ruolo del tranquillante alle pulsioni e alle rabbie dell’incomunicabilità. Toni riallaccia il dialogo con il pubblico attraverso il recupero di qualcosa di smesso. Il “vestito” scavato, logoro, sfruttato dai grandi del cemento -responsabili della violazione della natura, della cementificazione selvaggia, correi della morte dell’individuo unitamente alla macchina- è rinfrescato, passato in “tintoria”. Toni è l’artefice della restaurazione e nel contempo fruisce dell’autoanalisi: il transfert con la Natura. Tra gli interstizi dei blocchi e lungo le fratture di faglia le larve rigenerano.
Dalla morte alla rinascita; Zarpellon costruisce il ponte, Die Brücke, analogo a quello degli espressionisti, con il distinguo. Non c’è la separazione tra le due sponde, ma il collegamento tra prima e dopo, tra la fine e l’inizio, tra l’ovvio e la verità sofferta.
E ancora: per scongiurare il responsabile dell’eccidio comune era doveroso far rivivere nella cava i fantasmi della macchina: fisiognomiche ricavate da serbatoi destinate ad “abitare” la seconda Cava di Rubbio.
Qui il silenzio, estatico, incommensurabile misura l’eternità nel tempo. Tra il paesaggio ospitale, arcadico, bomboniera di mostri si compatta nell’ossimoro la nausea esistenziale; è la sofferenza del presentarsi agli altri che induce al malessere dell’esistenzialismo, quello sartriano. Si ravvisa la sofferenza jasperiana nell’estraneità anche con un cosmopolitismo teologico. Comunque nel dualismo tra dire e fare, tra fenomeno e noumeno, tra certezza ed incertezza s’avviluppa il groviglio mentale che induce a rendere atto la potenza.
I serbatoi sventrati altro non sono che ritratti fedeli dell’essenza dell’intimo umano del terzo millennio con lo sfondo adeguato, in sintonia: dall’altopiano a picco sulla piana bassanese s’intersecano lombrichi di strade pullulanti di veicoli … ancora un frenetico carnaio urbanizzato.
Tuttavia è dalla solitudine, dalla vegetazione, dai soliloqui che s’insinuano le auto-certezze; i dialoghi interiori su cui radicano le relazioni umane e si confrontano i saperi … Ricordo che migliaia sono annualmente le visite alle Cave di Rubbio. Sono queste ultime un indiscusso ricettacolo d’idee e punto d’interscambio culturale.
Toni Zarpellon riadatta la metafora settecentesca del lume della ragione contro secolari tenebre dell’ignoranza. La candela dentro la zucca svuotata: la luce in testa per sconfiggere paure, streghe, malefici e pilotare lo sforzo razionale alla conquista del sapere. Illuminazione dunque contro i fantasmi della non-conoscenza. Sorgono le domande: i grafemi tanto sfruttati dal Bassanese.
Susseguono innumerevoli quesiti; effettivamente l’arte più che dare risposte alterna interrogativi a provocazioni, sillogismi e metafore. I programmi, i manifesti del XX secolo hanno fatto emergere settoriali angolazioni d’indagine attendendo l’unanime consenso durante e dopo la progettazione. In molti casi l’adesione del singolo alla corrente è forzata; un tentativo di mettere d’accordo delle idee, quasi un’associazione d’insiemi che convergono in una misera appendice di scopo. Con un segno, con una pennellata è già astrattismo, magari informale … E il Novecento è stato fecondo di movimenti, o di intenzioni che hanno codificato correnti.
Man Ray sostenne che l’amico Duchamp preferì lavorare da solo, senza adattarsi a schemi plurisottoscritti, né  a manifesti.
Toni è artista individualista, poco disposto a condividere in équipe il pensiero e non fa neppure “scuola di bottega” pur avendo uno stuolo di estimatori, collezionisti, amici dalle cave allo studio.
Sono convinto che abbia ripreso “colore” con la full immersion nell’Altopiano; le larve in simbiosi con il pubblico e con la natura hanno dato vigore al DNA creativo. In plein air ha maturato la disponibilità alla comunicazione, riappropriandosi il ruolo d’Artista. E’ una ri-nascita della sua produzione: razionale, sincretica, più soppesata rispetto al linguaggio pittografico della Cava dipinta; l’opera è eseguita nello studio nel dualistico intimo dialogo io-io.
Esegue l’autoritratto per autoanalisi e rispondere alle questioni dell’identità non-certa, inculcata dal “vai sociale”. Cento o forse più le auto rappresentazioni, autocelebrazioni, auto interrogativi: noumeni. Sono volti colti nell’essenzialità del segno e del colore, pur evidenziando appieno i volumi. Ho ravvisato un intrinseco collegamento di continuità con l’arte nera portata in Europa il secolo scorso.
Lo studio è il grembo, dove matura il desiderio di esibirsi per cum-dividere. Lo stress positivo necessita dell’altra oltre al sé per completarsi e per esprimere la peculiare poetica. Il sillogismo è l’idoneo mezzo. L’ipotesi è creazione cerebrale: illuminazione, vita interiore, il sé. L’antitesi è nell’incertezza, nel quesito, nel noumeno. La tesi si auto produce nell’universalizzare ciò che è dentro, il vissuto che necessita dell’altro fuori da sé. Toni crea le teste di donna. Ancora cento per logica comparazione ed equilibrio.
Effigi non belle, tecnicamente non elaborate. La fotografia avrebbe riprodotto puntualmente donne fatali non gli stati emotivi. Nei volti  sono stampate espressioni diverse: il sorriso, la fissità dell’introspezione, lo sguardo penetrante, … La mimica facciale continua con il corpo: i nudi.
Donne sdraiate su divani, su seggiole di vimini sono colte nella meditazione; nell’intenzione di lasciare allo spettatore il pensiero piuttosto della figura. Modelle non intenzionate a dare spettacolo con il corpo, ma comunicare il succo dell’identità. Toni supera l’espressionismo estetico, post-impressionista di Derain; le figure del bassanese acquisiscono i caratteri introspettivi analogamente, e più, dell’esibizione dell’io-nudo di Marcella di Kirchner.
Dalle tele e dai disegni esce l’aria pesante, dura dell’attesa. La femmina colta nel suo essere tale, senza difese, gravida solamente del desiderio di comunicare la personalità, repressa sotto gli abiti. La nudità esprime ciò che è dentro, altrimenti non visto perché occultato dalle vesti: le divise di femmina. Davanti all’artista c’è l’occasione per raccontare l’identità di donna in piena libertà.
I nudi di Zarpellon non sono dunque piacenti, né inducono a pensieri sensuali; la nudità è disarmata nel proporsi e disarmante nell’autocelebrazione; sono ostentazioni di esistenzialismo senza vanità.
Comunque immagini quasi private uscite dallo studio … Lui seduto tra i colori e alle sue spalle l’opera finita: la modella volta ad osservare l’aprica distesa della pianura sotto l’Altopiano.
Presentimento della necessità di uscire, gustare i sapori delle stagioni, il profumo dell’erba, l’odore dello stallatico e dei ciclamini. Linee d’orizzonte squassate da monti lontani; terre  verdi e rosse, linee color ruggine e cieli tersi. La scomposizione del paesaggio era posizionata lì davanti ai miei occhi e sulle sue tele. 
La sintesi e la globalità della visione: faggeti rossi esibivano avvizzite le foglie nella corale verde dei declivi.
La nuova Arcadia era forse tra quei monti? Forse sì. Toni m’aspergeva di fumo nella conversazione. Avvertii Zarpellon forte, filosofo nel puntare al petto il fioretto delle sue sentenze. Nuovo Courbet esalta lo spirito della vita in una bucolica neo-Barbizon.
Daumier avrebbe ancora mostrato i passeggeri di terza classe; Toni non disdegna di lanciare strali contro gli oligarchi dell’economia… Si sente coinvolto nel consorzio esistenziale. Satirico, sprezzante, nell’unicità interpretativa mostra pure il paesaggio quotato in borsa in un grafico di rialzi e cadute improvvise. Messaggio veritiero come sa fare un artista immune da mediazioni di parte.
Ho sentito sotto le suole lo scricchiolio della neve ancora dura sopra le zolle erbose. I rivoli freddi del disgelo liberano i totem della Cava abitata; le creature tristi, morte anzitempo, crocifissi dalle macchine che li hanno generati, rimangono nella pietraia desolata, così come si mostrano ancora facete le creature larvali variopinte della Cava dipinta.  Reggendo la sigaretta come un tedoforo, maratoneta nel paradiso di Rubbio ho gustato ancora l’arte, la sua, nelle linee carminio di nubi al tramonto e nel cupo di verdi lontani. Ho abdicato ogni pensiero razionale ed ho risentito dentro la poesia.
                 Vincenzo Baratella
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©  Foto pr.ema

Toni Zarpellon è nato a Bassano del Grappa dove vive e lavora. Ha frequentato l'Accademia di Belle Arti di Venezia. Ha insegnato presso gli Istituti d'Arte di Nove e dei Carmini di Venezia. Espone dal 1965 in numerose mostre personali e collettive in Italia e all'estero. Nell'autunno del 1989 inizia gli interventi nelle "Cave di Rubbio"; una notevole impresa per la quale la comunità di Rubbio, nell'aprile 1991, gli assegna un riconoscimento.
La sua attività artistica è documentata presso: l'Archivio Storico A.S.A.C. della Biennale di Venezia; Fondazione Ragghianti, Lucca; Fondazione Corrente, Milano; Biblioteca Kandinsky, centro Pompidou, Parigi e altre istituzioni Culturali in Italia e all'estero. Nel marzo 1999 è stato iscritto all'Albo Nazionale Pittori e Scultori, A.N.P.E.S.
L'opera di Toni Zarpellon è riportata da Giorgio di Genova nella storia dell'arte italiana del '900.
Nel 2006 e 2008 si fa riferimento all’opera del bassanese nelle edizioni Electa "La pittura nel Veneto - Il Novecento"
E’ presente con "Cento giorni per cento autoritratti 1999-2000” presso la Sala Ospiti del "MAGI", Museo d'Arte delle Generazioni italiane del '900, a Pieve di Cento (BO).
Nel 2008 è invitato alla rassegna "Arte al bivio -Venezia negli anni sessanta-" a cura di Nico Stringa, tenutasi presso l'università Cà Foscari. Nel 2011 è uscito, per le edizioni Napoli Nostra, il volume "Fra tradizione e innovazione - artisti italiani da non dimenticare" dove Rosario Finto ha preso in considerazione l'opera di Toni Zarpellon.
Un dipinto del 1973 è pubblicato nel catalogo della mostra  alla Casa dei Carraresi di Treviso "II pittore e la modella, dal Canova a Picasso".
A marzo  2008 e in aprile 2011 è allo Studio Arte Mosé di Rovigo con due personali tematiche. Nel settembre dello stesso anno espone  all’ex-Istituto Statale d'Arte in Campo dei Carmini a Venezia. Successivamente a Milano riscuote unanimi consensi. Nel 2013 è tra gli Artisti della Fiera Arte Padova.
©  Copyright 2014.  Studio Arte Mosè