mercoledì 28 marzo 2018

Ferdinando Viglieno-Cossalino allo Studio Arte Mosè





Testo critico di Vittorio Sgarbi
In questa produzione di paesaggi e nature morte, Ferdinando Viglieno-Cossalino realizza la sua visione nello spazio pittorico utilizzando timbri leggeri e trasparenti, e realizzando forme persuasive e cromaticamente molto ben orchestrate. La sua manualità è particolarmente felice nell'esaltazione delle sfumature, che si traducono nella capacità di conferire alla raffigurazione una metafisicità quasi astratta. Che il soggetto scelto sia Venezia, oppure un bosco illuminato da una luce filtrante, la qualità pittorica della rappresentazione è comunque vitale e attiva, avvalendosi di una energia segnica di grande suggestione formale, e di una riflessione profonda alla ricerca della soluzione espressiva più adeguata al soggetto che ha scelto di ritrarre. L'elaborazione del suo linguaggio si definisce sull'equilibrio dei rapporti fra le forme e i colori, che si connettono strettamente non tanto sul piano della verosimiglianza, quanto sull'attendibilità cromatica dell'insieme. Nei dipinti di Viglieno-Cossalino persiste una poetica che trova la sua massima orchestrazione in una gentilezza compositiva fatta di sentimenti, ma senza artifizio letterario. Tutt'al più egli mostra una tensione visiva che si può far risalire alla scuola naturalistica del tardo Ottocento. Si direbbe che Ferdinando Viglieno-Cossalino si affidi alla perfetta padronanza del tratto pittorico per ripudiare il pittoresco o, piuttosto, per esaltare una visione intimistica e compositiva dell'insieme, evitando di appoggiarsi al dettaglio. Ogni suo lavoro è una pagina guidata da un ardore controllato, da una passionalità tenuta a freno dal raziocinio. Pittore che tende alla sintesi visiva, nelle sue nature morte immette pochi oggetti, preferendo, attraverso le sue tele, inviare all'osservatore un messaggio fatto di sfumature che delineano dolcemente, senza dispersioni esornative né sottolineature espressive, la definizione degli oggetti o della natura. A queste armonie così sobrie e lineari, egli unisce il gioco espressivo e mutevole delle policromie. Le linee ascendenti delle piante e quelle orizzontali dei piani che sorreggono le nature morte sortiscono da una pennellata calda e dai timbri chiari. Il colore è subordinato a un'emozione ben equilibrata, che esprime soprattutto la serenità compositiva di un poeta lirico. Su tutte queste sue narrazioni visive, al di là della scelta cromatica e compositiva, vibra un'atmosfera silenziosamente misteriosa, dove prevale la componente luminosa, che amalgama i toni in concordanze e contrappunti perfettamente calibrati. Il colore assume quindi una funzione trasfigurante, e funzionale a costruire la caratterizzazione finale del quadro. Cogliendo gli accordi e le armonie della natura Viglieno-Cossalino si pone in una prospettiva post-impressionistica di pittura dal vero. Dei maestri che lo hanno preceduto egli applica la lezione severa che impone di iniziare una tela solo dopo aver precostituito i rapporti volumetrici delle nature morte, o aver scelto il momento preciso in cui il paesaggio si presenta nella luminosità e nei colori che interessa riportare. Quella tradizione a cui egli si affida si basa anche su una scienza armonica e compositiva, per cui le sue stesure agiscono stemperandosi su prevalenze tonali che segnano la singolarità irripetibile di ogni opera. E' infine evidente che per questo pittore la realizzazione di un quadro è soprattutto la visualizzazione di un sentimento da comunicare e, proprio dalla certezza di riuscirci deriva la sua gioia di fare pittura che resta impressa e visibile nelle tracce dell'ordito narrativo della tela. [Vittorio Sgarbi]
Lo Studio Arte Mosè ringrazia la Direttrice Dott.ssa Chiara Paparella

momento dell'inaugurazione
Signore Moriero, Viglieno, Prudenziato
Da sinistra: Danilo Moriero e Signora, Emanuela Prudenziato, l'artista Viglieno-Cossalino e Signora
momento dell'inaugurazione
Lo Studio Arte Mosè ringrazia 

Mnemosine

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per articolo su Viglieno-Cossalino

la voce 5.maggio 2018
momento dell'inaugurazione da sinistra: Baratella, Viglieno-Cossalino e Signora, Danilo Moriero e Signora.


Tiziana Torcoletti allo Studio Arte Mosè


































Mostra fotografica di  TIZIANA TORCOLETTI
 titolo  “SCARPETTE ROSSE”
Testo critico di Giulia Naspi
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Gli scatti di Tiziana Torcoletti sono frammenti di una storia tragica che si ripete silenziosamente nella quotidianità contemporanea e allo stesso tempo sono fotogrammi che danzano tra le note musicali di un dramma del passato.
Il titolo scelto è infatti dichiaratamente ispirato dall’omonimo film del 1948, e ne ripercorre la vicenda drammatica dove si nasconde un indiretto riferimento alla violenza non solo fisica, ma anche e soprattutto psicologica alla quale le donne sono sottoposte ancora oggi.
L’impossibilità sociale di portare avanti amore e carriera, la costrizione ad una scelta sofferta, sono dinamiche che seppur affievolite, non sono da ritenersi del tutto estinte nell’universo quotidiano femminile, e ciò non ha naturalmente smesso di generare sofferenza e frustrazione.
Le foto esposte oscillano continuamente tra passato e presente: i soggetti sono giovani donne, ma delle quali vengono evidenziate soprattutto le spalle e le mani, ovvero le parti del corpo dove maggiormente il passare del tempo lascia i suoi inevitabili e indelebili segni.
Si oscilla anche tra il silenzio e la musica che sentiamo riecheggiare chiara e forte nelle scene di ballo e diffondersi nella sala dove i ballerini si incontrano, ma accanto alla spensieratezza piomba il silenzio schiacciante di una quotidianità tutt’altro che serena e perfetta. 
Tutte le scene sono drammaticamente immortalate in bianco e nero, modalità che ben rappresenta il nodo tra passato e presente e la tragica realtà che attraversa il tempo e lo spazio.
Il rosso delle scarpette è l’unico elemento cromatico immune alla freddezza bicroma di un tempo che scorre, ma che non riesce a portare con sé la violenza e l’arretratezza di una società che considera la donna capace di cose straordinarie, ma ancora non meritevole di una vita migliore.
Il rosso simboleggia da sempre la passione, l’amore, ma anche la violenza e il pericolo che soprattutto per una donna è sempre in agguato, pronto a sferrare il suo attacco micidiale e lasciare per sempre segni indelebili nell’anima.
Con questo suo ultimo lavoro Tiziana ci mette in guardia verso le molteplici forme che la violenza può assumere: essa può essere fisica, verbale, psicologica, morale, e si può celare nelle persone e nei luoghi più inaspettati. [Giulia Naspi]
























Comunicato stampa

SCARPETTE ROSSE
Personale di
TIZIANA TORCOLETTI


Studio Arte Mosè, Via Fiume, 18 a Rovigo
dal 14 aprile al 3 maggio 2018

Sabato 14 aprile, alle ore 18 lo Studio Arte Mosè presenta una ventina di scatti fotografici di Tiziana Torcoletti; laureata in sociologia, con passione e predisposizione per l’arte, vive e lavora ad Ancona. Nello studio dell’artista Cristian Martin apprende la tecnica del disegno a matita. Il bianco e nero sono le cromie sulle quali adatta l’opera ed in particolare la fotografia. Nel 2007 apre una galleria che in breve con la collaborazione di altri artisti si svilupperà nel Circolo Culturale Galleria Puccini. Tiziana  assume la direzione artistica. Con la fotografia trova l’idoneo mezzo per rilevare tematiche di grande attualità suscitando emozioni, curiosità e valutazioni.
Scarpette rosse è il titolo dato alla rassegna. Ispirato dall’omonimo film del 1948, ha in alcune immagini la funzione di ripercorre l’epilogo tragico della ballerina. Pretesto dalla fiaba andersaniana per provocare dalle calzature di pezza, confezionate dalla ciabattina per la giovane povera, la sequenzialità di segni visivi che rimandano al colore della passione, della violenza. Le scarpette rosse, appunto, hanno assunto i caratteri della trasmissione di immagini forti di violenza fisica, morale e psicologica di cui i media purtroppo nel terzo millennio non sono avari. Una cronaca ricca ancora di femminicidio e di maltrattamenti.
Il testo di presentazione alla mostra di Giulia Naspi ribadisce: “L’impossibilità sociale di portare avanti amore e carriera, la costrizione ad una scelta sofferta, sono dinamiche che seppur affievolite, non sono da ritenersi del tutto estinte nell’universo quotidiano femminile, e ciò non ha naturalmente smesso di generare sofferenza e frustrazione.
Le foto esposte oscillano continuamente tra passato e presente: i soggetti sono giovani donne, ma delle quali vengono evidenziate soprattutto le spalle e le mani, ovvero le parti del corpo dove maggiormente il passare del tempo lascia i suoi inevitabili e indelebili segni”.
Foto in bianco e nero per sottolineare il malessere, la condizione senza colori caldi, di gioia; solo il rosso delle scarpette è l’unico elemento di colore. Identificativo di uno status, alla stregua del cappotto della bimbetta in Schindler,  delle Red Shoes di Moira Shearer, delle scarpine di una creaturina internata a Buchenwald,… il rosso vivo del sangue.
Tiziana Torcoletti  dalla rassegna  evidenzia il suo impegno di sociologa, coniugato alla bravura nel creare situazioni d’immagini d’alto impatto spettacolare e spunto riflessivo.
 Vincenzo Baratella


La mostra sarà visitabile:
dal 14 aprile 2018
al 3 maggio 2018 tutti i giorni feriali
dal lunedì al venerdì dalle 16,30 alle 19,30













 https://litterisetartibus.blogspot.it Lo Studio Arte Mosè ringrazia e allega articolo.
DIMENDIONE DONNA
“Scarpette rosse” di Tiziana Torcoletti
dal 14 aprile al 3maggio allo Studio Arte Mosè
Il titolo  della mostra  della sociologa  Torcoletti sottolinea l’interesse per le problematiche  inerenti   la società  che si riconosce  prevalentemente nel modello maschile  e  la dimensione  femminile. IL desiderio di successo espressione  del mondo maschile, nel tempo, si è rivelata  una componente anche del femminile. La congiunzione  è rivelatrice della considerazione millenaria nei confronti della donna: elemento strano capace di dare la vita, di avere dei sentimenti, reazioni emozionali, desideri tali e quali all’ ”altra parte del cielo”. Come  controllare tutto ciò, dare una spiegazione alla propria finitezza, che solitamente rimane a livello inconscio, nella normalità dei casi? Per chi invece supera la soglia dell’autocontrollo: c’è l’atto  sacrilego per impadronirsi  del potere dell’altro, diventare l’altro. Dall’ammirazione incondizionata, all’invidia per ciò che rappresenta il femminile: bene, male, accettazione, rifiuto perché la comunicazione, il contatto passano attraverso un linguaggio da saper decifrare  con il cuore  e il cervello. Ciò che appare bello, meraviglioso ha una sua fragilità, sensibilità degne di rispetto; l’irraggiungibile dimensione di qualcosa di superiore pur nella sua umiltà. Nella quotidianità spesso la volontà femminile è negata; mette a nudo le incongruenze, la superficialità pericolosa dei comportamenti e allora l’immagine e nel contempo la figura concreta della donna  vengono negate, cancellate con un tragico infantilismo, un nascondersi dietro a un dito per non ammettere la realtà. Troppe volte si uccide materialmente ciò che  invece  si vuole far sparire psicologicamente: quel male  che è incapacità di crescere, di vedere onestamente in sé stessi i propri limiti e difetti. [Emanuela Prudenziato©]

Lo Studio Arte Mosè ringrazia la giornalista Dott.ssa Chiara Paparella, Direttrice di Radio Rovigo net e promotrice eventi per recensione rassegna. 


 Lo Studio Arte Mosè ringrazia.



martedì 6 marzo 2018

Matteo Faben allo Studio Arte Mosè

Matteo Faben con una quindicina di sculture in mostra allo Studio Arte Mosè, a Rovigo, in Via Fiume, 18 dal 24 marzo al 12 aprile 2018.

 Ecce Homo, marmo di Carrara. Opera collocata sul portale della Chiesa di San Gaetano a Barletta



Eclettismo plastico di Matteo Faben.


La scultura per essere tale ha bisogno di esibire la tridimensionalità del pensiero espresso. È difficile associare la statuaria a qualcosa di astratto poiché ciò piloterebbe il concetto all'informe creato spontaneamente dalla natura. È perciò ovvio che la quasi totalità delle rassegne plastiche abbiano un riferimento ad un dato oggettivo ben conosciuto e riconoscibile. Matteo Faben è l'artista della congiunzione tra un classicismo desueto per le salon des arts attuale, ma è comunque cronico nell'impatto affettivo con le aspettative dell’osservatore, è forgiatore di opere che rimandano al pensiero complesso delle odierne estrinsecazioni. Usa il marmo con una morbidezza plastomorfica unica nell’identificazione dell'inconfondibile stile che rimanda all’artista veronese. Riesce a mostrarsi con una personalità originale rispetto alla scuola degli scultori di oggi. La cultura del presente di Matteo è unica nonostante abbia vivo nell’esecuzione modelli di rappresentazione greco-romana mai persa. Non a caso predilige la sostanza che per la sua nobile struttura si appresta alla mimesi classica: il bianco saccaroide di Carrara. Questa è la sostanza nella quale tuffa lo scalpello e realizza opere che nulla hanno da invidiare al modello canoviano. L'autoritratto forte e realistico nel ripetere l'effige di Matteo esteticamente dà il modello della bellezza, soprattutto se vengono analizzati dettagli quali i risvolti del tessuto della camicia che si sollevano dal busto con leggerezza nei volumi, trasparente, dimenticando la materia costituendi sulla quale è improbabile aggiungere, ma comodo togliere. Nel trait-d’union tra il realismo elegante e nuove soluzioni nell’uso del soggetto Faben riesce a equilibrare le tendenze pur rivelandosi un ricercatore. La modernità del soggetto: Cane cieco, La donna di pasta, Madonna del sì, Ostrica, Il mistero della fede, sviluppa la novità tematica in accordo con la perizia tecnica. Ne l’incontrollabile, mano-guanto, retaggio post romantico di Klinger, il marmo avvolge sottile, impalpabile, con sublime eleganza un soggetto fantastico che si condensa nella roccia fino a rilevare la pelle del braccio, concludendosi nella mano che azzarda di afferrare l’idea. L'artista veronese propone il motore Harley Davidson; soggetto inusuale per la scultura, ma di travolgente originalità: l'idea popular-art dell'oggetto d’uso. “Le misure di questa scultura corrispondono esattamente all'originale, misurato con un pantografo manuale che riporta esattamente ogni singolo di quasi cinquecento punti presi, con un totale di novecento ore di lavoro impiegate. L'effetto stupefacente trasporta -sostiene  l’artista- ad ascoltare il suono di un vero motore fin dentro nell'animo e nel contempo crea un desiderio di realtà che, legato al marmo sa proprio di infinito”. Matteo è versatile; gli è congeniale riversarsi nella meticolosa ricercatezza delle forme quando presenta allo spettatore gli elementi minuziosi che compattano il soggetto religioso. Ecce Homo, di grande dimensione, ora in giusta collocazione sul portale della chiesa di San Gaetano di Barletta ha straordinaria forza e ineguagliabile slancio mistico. Faben è poliedrico e avanza oltre le attese erigendosi artista di nuovi linguaggi plastici. Da un groviglio, una matassa marmorea, si protende con la delicatezza candida, quasi di gomitolo di lana, una tela di seta, l’impalcatura che sfocia nell’idea realizzata plastica, forte nella pietra carrarese alla pari delle opere dei grandi maestri. Novello Rodin è legato all’accuratezza estetica e contemporaneamente anticipatore di nuovi linguaggi. Vincenzo Baratella


Autoritratto, marmo di Carrara



Motore Harley Davidson, marmo di Carrara















Lo Studio Arte Mosè, ringrazia Archivio di Arianna Sartori per recensione rassegna. 




Lo Studio Arte Mosè ringrazia la giornalista Dott.ssa Chiara Paparella, Direttrice di Radio Rovigo net e promotrice eventi per recensione rassegna. 
Lo Studio Arte Mosè ringrazia per Matteo Faben in Mnemosine, https:\\litterisetartibus.blogspot.it

L’arte di Matteo Faben in mostra allo Studio Arte Mosè

Si è inaugurata allo Studio Arte Mosè a Rovigo la personale di Matteo Faben, artista ecclettico, versatile, legato all’accuratezza estetica e contemporaneamente anticipatore di nuovi linguaggi.
Come con il motore Harley Davidson, soggetto inusuale per la scultura, riprodotto in marmo bianco di Carrara, a grandezza naturale, con una ricchezza di dettagli ed un totale di novecento ore di lavoro.
Faben va personalmente nelle cave a scegliere i blocchi di marmo che scolpisce senza nessuna anticipazione grafica, mentre a volte le disegna con la matita sulla carta, con una grande libertà espressiva, anche per le sue opere cimiteriali, che esegue “solo se gli lasciano campo libero”, altrimenti rifiuta l’incarico.
Lo scultore ha frequentato l’Istituto d‘Arte serale “Appio Spagnolo” a Cerea, mentre stava lavorando, e da lì è partito il suo percorso creativo: le sue idee nascono dal desiderio, altre applicate alla fede, che è fonte di ispirazione di un tutto infinitamente, mentre il resto è finito. I suoi modelli sono Canova per la finezza, Michelangelo per la forza e Bernini per eleganza: davanti alla galleria ha creato una installazione con un telo bianco e una bomboletta spray, che rappresenta il Mosè, ed in questo modo ha contestualizzato, usando le sue parole, un miracolo, cioè un messaggio ai giovani, credere con fede, come arte, come ispirazione.
Matteo Faben ha fatto un lavoro molto buono con il suo ritratto e le mani come guanti settecenteschi di marmo diafano o un piede, raffigurazione di uno stivale da moschettiere con le dita, in una fusione di classicismo e di moderne proiezioni plastiche.
La mostra ad ingresso libero è visitabile fino al 12 aprile dal lunedì al venerdì dalle ore 16,30 alle 19, 30 in via Fiume, 18 a Rovigo. [testo e foto sotto di Cristina Sartorello]