Retrospettiva tematica
sull’opera di Mosè Baratella:
preoccupanti coeve verità
di Mosè
DAL 30/04/2016 AL 19/05/2016
allo Studio arte Mosè, Via Fiume, 18, Rovigo
Sabato 30 aprile 2016 alle ore 18, inaugurazione presso lo Studio Arte
Mose’ di Rovigo.
Vincenzo
Baratella, curatore della retrospettiva, illustra
peculiari tematiche sviluppate dall’Artista rodigino
durante gli anni di piombo in Italia.
Mosè Baratella
(1919-2004) ha dedicato l’intera vita all’Arte e per l’Arte. Alla vigilia della
celebrazione del centenario dalla nascita, la Galleria rodigina, che si è
onorata del nome, ha allestito una mostra su di un particolare settore tematico: la rappresentazione
delle vicende successe in Italia durante gli anni di piombo e la ciclicità vichiana
di attuali tristi eventi.
Le opere con
modernissimo e singolare stile narrativo fanno emergere la profetica straordinaria
anticipazione su preoccupanti coeve verità.
L’allestimento inizia
con l’incipit pittorico nell’autoaffermazione d’Artista: autoritratto ad olio
del 1938 e si conclude con un altro autoritratto eseguito pochi anni prima
della morte; entrambi denotano la tecnica sicura, classica, con pennellate
vigorose.
L’intenzione del
curatore è quella di sottolineare lo stacco di stile dalla forma, legata agli
schemi accademici, e i contenuti che si avvalgono di una pittura immediata, di
getto, adatta al registro linguistico simbolistico e psicologico.
A corredo esplicativo
della mostra il curatore ha presentato il catalogo: preoccupanti coeve verità di Mosè.
Coordinamento
redazionale: Emanuela Prudenziato.
La mostra è gratuita e aperta tutti i giorni feriali dal lunedì al venerdì dalle 16,30 alle 19,30 fino al 19 maggio 2016.
Per info: studioartemose@live.it
“Studio Arte Mosè” è la galleria che Vincenzo Baratella ha voluto
dedicare al padre.
Mosè Baratella (Pontecchio
Polesine 17-11-1919 – Rovigo 23-4-2004) lo conobbi alla fine dei mitici anni
Settanta, quando entrai a far parte del Gruppo Autori Polesani, fondato dal
commediografo Miro Penzo. Il gruppo molto vivace era riuscito a raccogliere
poeti, scrittori, storici e pittori, giovani e meno giovani, molti esclusi dal
gotha della cultura rodigina ma anche accademici dei Concordi e storici della
Minelliana nascente. Succedeva così che i pittori offrissero le proprie tele
per premiare i poeti. A distanza di tempo, sfogliando le pagine del periodico
“Autori Polesani”, affiorano le firme di grandi figure accanto a giovani in
erba scomparsi dalla scena. Mosè Baratella, amico del poeta Alberto Marzolla,
faceva parte di questo movimento, pur tenendosi in disparte. Baratella era un
grande artista, che aveva dedicato tutta la vita alla pittura, alla scultura e
alla grafica, riconosciuto e stimato fuori ma non negli ambienti chiusi e
ristretti della sua città. Il lavoro, la famiglia, la moglie gelosa di tutti
quei ritratti femminili, una Rovigo saccente e indifferente erano una prigione
per i voli della sua arte. Alcuni dei suoi dipinti sono stati attribuiti a
pittori di fama internazionale e Mosè ha fatto in tempo a subire questo
ennesimo affronto. Ne vide uno – a pochi anni dalla morte - nella mostra Il Po in controluce, allestita a Rovigo
al museo dei Grandi Fiumi. Non disse nulla – com’era nel suo stile. Forse
malinconia o forse finalmente grande approvazione. Era consapevole del valore
delle sue opere, ma si sentiva incompreso come Ligabue. Qualche centinaio gli
autoritratti nei quali Baratella si rappresenta, spesso con le sembianze di
Ligabue. Un'ossessione non momentanea ma lunga negli anni, affidata a
cromatismi vivaci e intensi, a deformazioni formali provocanti, a occhi tristi
e stralunati, a bocche spalancate, per esprimere un'inquietudine mai sopita, un
grido di dolore e di rabbia, un'amarezza che lo faceva diventare Ligabue,
Munch, Van Gogh, Napoleone, re, sultano, ciclista, corsaro, gallo, aquila, lepre.
Padrone di mezzi e tecniche, succedeva che amici pittori ricorressero a lui per
dipingere elementi un po’ difficili come le mani o altri particolari. Mosè acconsentiva
e non chiedeva nulla. Assiduo frequentatore delle biennali, ha interpretato le
correnti del Novecento, creando lo stile di Mosè. Uomo del proprio tempo, è
passato dalla pittura en plein air, con angoli cittadini e paesaggi polesani,
alle nature morte, ai ritratti, agli autoritratti, alle rappresentazioni dei
temi sociali del periodo del dissenso, alla serie “le piazze d’Italia” fino
alla “maternità”, un olio del 2003,
a pochi mesi dalla morte. Quadri che avrebbero trovato
degna collocazione solamente nella dimora di Peggy Guggenheim a Venezia. L’opera
di Mosè cerca ora finalmente grandi spazi per essere goduta e apprezzata: un
intero Roncale, un Roverella. Mosè teneva in casa rotoli di tela per tagliare
ogni giorno il pezzo necessario. Regalava, vendeva o svendeva per pagarsi le
sigarette Astor, i colori, le tele, le cornici, senza intaccare il suo modesto
stipendio di impiegato. E dopo il lavoro, sempre per arrotondare, a dipingere madonnine
per i devoti. A vederlo sembrava la persona più tranquilla ma, con il suo
atteggiamento sornione, aveva dato filo da torcere ai gerarchi fascisti. No, il
sabato fascista non era per lui: non voleva né sfilare né cantare Giovinezza. Preferiva il silenzio della
guardina dei carabinieri a Polesella. A sera, era già a casa. Negli ultimi
decenni di vita lo si poteva incontrare in piazza Vittorio Emanuele II, non
alto, elegante, il cappello a larga falda, un Panizza di paglia di riso
d’estate o un Borsalino di feltro d’inverno, la sigaretta in mano, poche
parole, due grandi occhi azzurri e un fascio di tele o di disegni in una
cartellina o arrotolati sotto il braccio per l'approvazione degli amici o di
qualche acquirente. Se lasciava la casa di via Viviani, appena fuori le mura,
lo faceva per raggiungere la quiete della campagna con il poeta Alberto
Marzolla nella vecchia casa lungo il Canal Bianco. E qui fu incantato da due lavandaie,
la Pina e la Renata Filippi , che ritrasse
più volte negli anni Cinquanta e Ottanta. Il figlio Vincenzo sta cercando di
rendere giustizia alla produzione abbondante e poliedrica del padre negli spazi
della sua galleria, ritrovo di artisti veneti, friulani, toscani, lombardi, emiliani,
romani. Qui sono passati in molti, pittori e critici d’arte. Alcuni, come
Raimondo Lorenzetti e Toni Zarpellon, hanno avuto l’onore della Biennale; altri
sono scomparsi ma sempre vivi e presenti nelle loro opere. L’ospitalità di
Vincenzo e della moglie Emanuela Prudenziato – nipote del pittore Angelo – era
riuscita a conquistare persino la ruvida scorza di Gian Antonio Cibotto. Fino a
qualche anno fa, lo scrittore rodigino, dopo un saluto alla Madonna della
chiesetta delle Fosse, amava trascorrere i pomeriggi in affabile conversazione
sul divano della galleria. Allora si scioglieva e diventava dolcissimo mentre affioravano
i ricordi del periodo romano, da Guttuso a Picasso, da Visconti a Fellini. Quel
Cibotto che a Leo Longanesi, che gli chiedeva di ristampare Cronache dell’alluvione, aveva risposto
“Mi consideri estinto”. Un sogno finalmente realizzato, a novant’anni, nella
villa di viale Trieste, dove Gian Antonio incontra la dolce nipote Anna Maria quando
torna da Roma e pochi amici rodigini.
©Graziella Andreotti
Mosè, Autoritratto, olio su carta, 1938
MOSE’
Nel corso della sua
vita lavorò costantemente per
esprimere le sue idee, lo spirito libero di cui era “prigioniero”. Non
si può parlare di Mosè se non in questi termini perché è l’artista che ricerca
continuamente di rivelare l’idea, l’interpretazione della realtà circostante,
il mondo in cui è vissuto. Ha saputo mappare la società, individuarne gli
aspetti contraddittori, spiacevoli, benevolmente ipocriti, senza acrimonia, ma
in modo razionale e chiaro, come la strategia del mondo quotidiano,
apparentemente senza ombre. E Mosè con i suoi disegni,oli su carta rappresenta
il razionale contorcimento dei pensieri,
dei comportamenti umani. L’astrazione, definizione tecnicamente impropria,
nelle sue opere è la fotografia della
vita. I pezzi sparsi sulla carta, sulla tela sono un puzzle che è
preferibile non ricomporre; troppo duro, doloroso riconoscersi in esso, meglio
immaginare l’impossibile come realtà: “ le mattane” così le chiamava Mosè sono
il suo pensiero più vero e profondo,l’affermazione dell’arte che legge oltre
l’apparenza e recupera sempre l’uomo con
le sue incoerenze e fragilità. ©Emanuela Prudenziato
Mosè, Inquietanti coeve verità ... (Opera in catalogo)
La rassegna è recensita su Facebook Arte Mosè Vincenzo
momento inaugurazione 30.4.16
art. 4.5.2016 su La Voce; sotto testo completo della giornalista Pavani Dott.ssa Maria Chiara:
A dodici anni
dalla scomparsa del pittore rodigino Mosè Baratella (1919-2004) e alla vigilia
della celebrazione del centenario dalla nascita, la galleria Studio Arte Mosè
ha allestito una retrospettiva tematica sull’opera dell’artista: ”Preoccupanti
coeve verità di Mosè”, inaugurata sabato scorso. La mostra riguarda un
particolare settore tematico: la rappresentazione delle vicende accadute in
Italia, durante gli anni di piombo e la ciclicità vichiana di attuali tristi
avvenimenti. Le opere, cioè, con singolare stile narrativo, anticipano
profeticamente coeve verità. “Fino ad oggi-ha detto Vincenzo Baratella-curatore
della rassegna, ho voluto presentare dipinti di mio padre dai quali emergesse
soprattutto la qualità indiscussa della sua tecnica, sicura, classica, con
pennellate vigorose, ora questa retrospettiva esplicita, invece, il suo
pensiero, anche se scomodo: l’arte come messaggio politico-sociale. La mostra,
che si fregia di un catalogo esplicativo sulla vita e l’opera di Mosè
Baratella, propone l’incipit pittorico dell’artista con un autoritratto
giovanile, olio su carta, del 1938, dove l’originale pennellata azzurrina che
investe lo sfondo e poi dipinge il viso e cola sul busto, evidenzia l’acerba
bellezza dei tratti del volto e, nel contempo, l’espressione già sicura
dell’artista. Autore di alcuni autoritratti, la rassegna si conclude con quello
dell’autore anziano e sofferente, di un impressionante realismo, mentre le
altre opere, una ventina, presentano contenuti resi con una pittura immediata,
di getto, che segue un registro linguistico simbolistico e psicologico. Mosè
Baratella, antifascista convinto e spirito libero, negli anni ’70, ha voluto rappresentare tutta la società del momento,
“individuandone gli aspetti contraddittori, spiacevoli, benevolmente ipocriti,
senza acrimonia, ma in modo razionale e chiaro”, come scrive Emanuela
Prudenziato nel catalogo. L’Italia, infatti, in quel periodo subiva le
incongruenze della modernizzazione e dei nuovi orientamenti politici e
culturali che portarono ad una serie di riforme come il divorzio, il diritto di
famiglia, l’abolizione dei manicomi e l’aborto, suscitando reazioni non sempre
positive nella popolazione e che il nostro ha evidenziato nelle sue opere. Ci
riferiamo a “Figli mai nati”, olio su carta, quadro drammatico in cui al centro
una figura femminile si disfa di tanti piccoli feti, attorniata da miriadi di
volti minacciosi che alimentano la sua crisi esistenziale. Anche il dinamismo
delle volute pittoriche e i cromatismi che accostano il rosso sangue al nero e
al grigio contribuiscono al forte impatto emotivo. Alludiamo ancora al
cambiamento dei costumi, come l’emancipazione femminile, evidente nel dipinto
“Soggiogato”, dove la donna, finalmente seduta sul trono, domina l’uomo di cui
tiene la testa, mentre ai suoi piedi, si agitano migliaia di figurette, simbolo
di una società confusa. Insieme alla libertà sessuale, Mosè non esita a denunciare
la licenziosità dei costumi anche in ambito clericale, come “Sacro e profano”,
che presenta un prelato con tanto di mitria, felicemente ritratto tra due belle
fanciulle. Ma l’artista, nel ’79 propone anche il malessere sociale e i temi
forti della stragi di stato, con le violenze faziose tra rossi e neri e lo fa
nella mostra “Piazze d’Italia”, nella galleria “L’incontro” del pittore Mastro
Pietro di Rovigo. Così anche il decennio tra il 1970 e il 1980 è stato fissato
su tela con forza instancabile, per sottolinearne con metafore e simbologie gli
errori, ma sempre salvando l’uomo, perché l’artista attraverso il simbolo, come
sottolinea il critico Baratella, “intende espettorare la ridda della malvagità
con l’intenzione di recuperare il mondo pulito”. La retrospettiva sarà
visitabile fino al 19 maggio, dal lunedì al venerdì, dalle ore 16.30 alle
19.30. ©Maria Chiara Pavani