Vincenzo
Baratella illustra il noumeno
per Zarpellon:
un
percorso tematico concettuale di cinquanta anni nell’Arte.
NOUMENO
PER ZARPELLON
Nell’epoca
della “mostra-mania” è arduo ricoprire il ruolo del curatore critico. Il più
delle volte, per chi lo fa di mestiere -non è il mio caso-, rischia di
sconfinare nelle fila dei pennivendoli: marinisti ridondanti di termini senza
contenuti… La scopiazzatura delle frasi fatte, dei luoghi comuni delle metafore
ovvie e obsolete.
La critica
d’arte intesa come mestiere di avvocato di difesa dell’opera del pittore è ciò
che si rileva tra i pieghevoli nelle personali con tanto di citazioni e forzati
raffronti. Un management di epigrammi e massime da Lotto a Veronese, da Tiziano
a Rembrandt, da Segantini a Schiele, da Klimt a Basquiat per far nascere dai
neuroni: “la bellezza delle forme, il cromatismo equilibrato e la bravura a
trecentosessanta gradi”. Sono intere cartelle e opere, critici e pittori con il
demerito di contribuire, con la domanda e il consumo, a rincarare la carta, le
tele e i colori. L’artista, con la A maiuscola, non ha bisogno di inutili
parole, né di difensori dell’opera, tantomeno di penne al servizio del
Mecenate; sa parlare di sé e per sé unitamente al prodotto dell’arte esibito.
Toni Zarpellon è uno di questi. E in alcuni casi è stato problematico esporre a
parole ciò che il suo animo ha mediato con l’opera. Oltre al perché e al come davanti
agli occhi c’era il quadro e in sincronia emergeva la “spiegazione”.
Che cosa ho
fatto? Conoscendo Toni da anni e condividendo un’amicizia spontanea e
intellettuale ho solo interpretato l’intenzione, le motivazioni e gli stati
d’animo. Non so se ciò sia tanto o poco, o sufficientemente adatto a scrivere
di un Artista e della sua opera. Non vorrei scadere nella trattazione diarista,
tantomeno nell’apologetica compattazione dei termini… deleteria forma per
celebrare l’amicizia piuttosto del demiurgo. Il rischio è non fare quello che
ho sopra contestato.
Toni è
dunque artefice nel suo genere; è il pittore che graffia nervosamente i
pastelli sulla carta, stende i colori senza la titubante paura degli
accostamenti: viola e giallo, verde e rosso, grigi e blu.
Sono i suoi
avvicendamenti emotivi: s’arrabbia e si consola; palesa sconforto e si rialza
scrollando la polvere della banalità, diffusa alla stregua dell’ignoranza.
Effettivamente chi crede di sapere è di gran lunga maggiore di coloro che
“sanno di non sapere”, così come abbondano i commentatori degli storici della
filosofia senza essere filosofi, pur professandosi tali. Perciò nell’oceano
della mediocrità tentare di essere critico, con serietà mentale, vale dire far
filosofia dell’arte: speculare su di un fenomeno umano interagente con la
società e proiettato al futuro con le Weltantschuungen condivise o
condivisibili.
Legittimare
attraverso l’indagine speculativa il “noumeno” prodotto artistico del
bassanese. Il tentativo è quello di superare “la barriera del suono”: un volo
pindarico per mettere “in mostra” l’Artista e la sua arte. L’uomo l’ho
conosciuto bene. Nella mente ho ritagliato le immagini che ritengo più
significative: la sigaretta fumigante tra le dita e l’occhio fisso oltre la mia
presenza, intento a sintetizzare il paesaggio dell’Altopiano.
Sono stato
migrante nel suo studio ed ho visto, non amato nella concupiscente frenesia
della soddisfazione del piacere, le sue “donne”. I nudi: nulla più di
terribilmente duro, antiestetico oltre l’obesità di Rubens, introspettivi fino
all’ultimo atto dell’analisi psicologica. Non ho visto donne sdraiate sui
canapè ricoperti da asciugamani; sopra ai teli da bagno c’erano presenze
scomode che si esibivano su improvvisati banchi di dissezione. Non certo la vecchia
lezione di Rembrandt, fredda, morta, distaccata esclusivamente scientifica, ma
una inusuale vivisezione senza liquidi biologici sparsi. Stanche, tristi,
ritorte in posizioni fetali -posizione del ritorno al piacere-, abbandonate
nell’esibire una sensualità non sfruttata, ho visto un’altra, autentica
immagine della donna. Sdraio, divani, poltrone, foderate di teli colorati, non
erano altro che i tavoli d’anatomia sui quali si esamina l’animo e Toni fa la
biopsia introspettiva e comparativa.
Seziona i sentimenti
e concretizza il momento del transfert. La donna spogliata non è oggetto (mai
l’improprio paragone con le mariline pop), ma protagonista di un piacere
intimo, di una sofferenza, di un’esibizione, di un confronto, di una
compartecipazione con il mondo. Toni è veicolo; traduttore per i più di uno
stato emotivo con una immagine fruibile.
Azzardai un
paragone settoriale con l’analisi soggettiva fatta dagli espressionisti
tedeschi; accettò il giudizio, tuttavia entrambi siamo consapevoli che trattasi
di solo una tangente che condivide i temi e il periodo. In effetti Zarpellon
non è un espressionista, sebbene ne abbia colto lo spirito.
Gli occhi
incavati e circoscritti da profonde occhiaie, innaturali per la tipologia
europide, esibiscono la fermezza contemplativa: guardare senza vedere,
lasciando trasparire quello che l’animo ha da mostrare. C’è nella fisiognomica
dei volti il recupero della negritudine, già fatta vedere da Picasso a
Pechstein; modelli recuperati dal mito del buon selvaggio. Scomparsi dunque
schemi non esoterici, ingenui forse, non inclusivi a meccanicismi esaltanti il
consumismo né agli ingranaggi dell’economia perversa ed oligarchica.
I valori
incuneati tra i lobi cerebrali, del superio buono, catechizzati, caritatevoli,
moralmente sincroni al potere, servizievoli e controriformisti da cinque secoli
in Toni sono divenuti opinabili e, in alcune situazioni, tramontati in lento e
subdolo tradimento. In ciò ravviso la continuità nell’analoga crisi delle
certezze interiori esplicitata dalla poetica espressionista.
Colpevole
chi? Ha contribuito la macchina, in nome del progresso, a soffocare il libero
pensiero del singolo. Il processo produttivo, conseguenza diretta del crescente
tecnicismo, ha massificato i linguaggi “personali”, settoriali, limitando di
fatto la lotta sociale per abbracciare deleteri prodotti dell’ingegno: arti
usa-e-getta. Il recupero del banale per fruire oggi e gettare domani: l’arte
popolare. La pop art.
Se giunse
positivo a Pier Paolo Pasolini l’uso della terminologia tecno-popolare come
mezzo per l’inculturazione sociale dopo il secondo conflitto e veicolo per la
comunicazione da un capo all’altro della penisola, non si può legittimarne per
sempre l’efficacia. Indubbiamente utile il messaggio uniforme, semplice di Mario
Soldati nel singolare viaggio per l’Italia per l’utilizzo unitario della
lingua; dannoso il perseverare dagli anni sessanta allo scopo di mantenere lo
standard culturale medio-basso. Il programma globale delle grandi potenze: la
zuppa Campbell e la Coca Cola di moda sulle tavole come le modelle platinate.
Donne, bibite, sigarette, detersivi e zuppe sono prodotti soggetti a prezzo e
dismissione. Mel Ramos palesa la metamorfosi da Wonder Woman a Belle Noiseuse.
Con la
stessa velocità del prendere-consumare-buttare il mercato immette lavatrici,
televisioni, frigoriferi, telefoni, cellulari, tablet e smartphone, … E se i
primi sono abbastanza statici nella loro evoluzione e segnando utilità, i mezzi
di comunicazione hanno avuto crescita esponenziale, inversamente proporzionale
all’utilità individuale e direttamente con quella del potere, limitando lo
sviluppo critico del pensiero. Nello stato di semicoscienza ne hanno
approfittato i totalitarismi, i grandi fratelli, i persuasori occulti.
Effettivamente
l’uomo pensante denuncia le imposizioni ideologiche e l’economia delle
multinazionali responsabili di aver creato i mostri. Sono tali le puttane e i
militari di Grosz, di Otto Dix, le fisiognomiche grottesche di Ensor … mostri
dei Ventenni prima, dopo e … senza
dubbio ancora per … sempre.
Zarpellon
non esita a mostrare la crocifissione della personalità, peggiore di quella
fisica. Il dio-uomo, neopositivista, che ha scongiurato le paure dell’ignoto,
della malattia e del trascendente nell’annuncio nietzschiano del “dio è morto”
è stato ammazzato proprio dalla sua creatura: la macchina.
Si
capovolgono le certezze. In Metropolis
la bellissima creatura s’appropria dei desideri del suo costruttore per
diventare incontrastata dominatrice. Già i germi del malessere sono fissati nei
fotogrammi del cinema espressionista tedesco di Lang. Analoga situazione l’ho
sentita in Toni: sofferenza nell’afonia ostruttiva al dialogo; la comunicazione
è sintetica, essenziale nel tratto forte e priva di virtuosismi manieristi, …
espressionista dunque come l’universalità del dolore. Il canale comunicativo
del bassanese è scarno allo scopo di giungere direttamente al destinatario, una
pluralità di sottocodici espressivi limiterebbe la trasmissione delle visioni
del mondo.
Alla
Sorbona, i sessantottini contestarono le hegeliane teste di legno; stesse
responsabili della massificazione e del livellamento della cultura sotto egida
del pensiero di stato; gli spiriti liberi, i neo galilei, i marx, i marcuse,
gli horkeimer, i brutti-cattivi … hanno lasciato più di quanto abbia fatto la
“cultura” ufficiale.
Una schiera
di creativi borderline che prima di morire sui lidi di Malta hanno realizzato,
e potrebbero ripetere, il ritratto di attuali madonne proletarie. Ovviamente ci
sono vincoli e freni alle opportunità espressive, perché c’è un filtro censorio
difficilmente frangibile tra l’opinione massificata e l’idea innovativa
artistica.
All’artista
che rifiuta il compromesso con la cultura della tradizione imposta dalla
politica di stato attraverso i media è preclusa anche la possibilità di
mostrare; il dissidente è crocifisso, è messo al confino in nuove Ventotene.
Toni evade
dal cerchio malefico e si rende libero dipingendo le cave dismesse
dell’Altopiano. La Cava di Rubbio viene colorata con teste d’uomini e di
animali. Fissa anime inquiete con occhi sbarrati: i suoi alla tensione di
spiegare il noumeno, il quid oltre la fisica per aprire le porte
dell’intelletto alla libera circolazione delle idee.
La cava
dipinta assume il ruolo del tranquillante alle pulsioni e alle rabbie
dell’incomunicabilità. Toni riallaccia il dialogo con il pubblico attraverso il
recupero di qualcosa di smesso. Il “vestito” scavato, logoro, sfruttato dai
grandi del cemento -responsabili della violazione della natura, della
cementificazione selvaggia, correi della morte dell’individuo unitamente alla
macchina- è rinfrescato, passato in “tintoria”. Toni è l’artefice della
restaurazione e nel contempo fruisce dell’autoanalisi: il transfert con la
Natura. Tra gli interstizi dei blocchi e lungo le fratture di faglia le larve
rigenerano.
Dalla morte
alla rinascita; Zarpellon costruisce il ponte, Die Brücke, analogo a quello degli espressionisti, con il
distinguo. Non c’è la separazione tra le due sponde, ma il collegamento tra
prima e dopo, tra la fine e l’inizio, tra l’ovvio e la verità sofferta.
E ancora:
per scongiurare il responsabile dell’eccidio comune era doveroso far rivivere
nella cava i fantasmi della macchina: fisiognomiche ricavate da serbatoi
destinate ad “abitare” la seconda Cava di Rubbio.
Qui il
silenzio, estatico, incommensurabile misura l’eternità nel tempo. Tra il
paesaggio ospitale, arcadico, bomboniera di mostri si compatta nell’ossimoro la
nausea esistenziale; è la sofferenza del presentarsi agli altri che induce al
malessere dell’esistenzialismo, quello sartriano. Si ravvisa la sofferenza
jasperiana nell’estraneità anche con un cosmopolitismo teologico. Comunque nel
dualismo tra dire e fare, tra fenomeno e noumeno, tra certezza ed incertezza
s’avviluppa il groviglio mentale che induce a rendere atto la potenza.
I serbatoi
sventrati altro non sono che ritratti fedeli dell’essenza dell’intimo umano del
terzo millennio con lo sfondo adeguato, in sintonia: dall’altopiano a picco
sulla piana bassanese s’intersecano lombrichi di strade pullulanti di veicoli …
ancora un frenetico carnaio urbanizzato.
Tuttavia è
dalla solitudine, dalla vegetazione, dai soliloqui che s’insinuano le
auto-certezze; i dialoghi interiori su cui radicano le relazioni umane e si
confrontano i saperi … Ricordo che migliaia sono annualmente le visite alle
Cave di Rubbio. Sono queste ultime un indiscusso ricettacolo d’idee e punto
d’interscambio culturale.
Toni
Zarpellon riadatta la metafora settecentesca del lume della ragione contro
secolari tenebre dell’ignoranza. La candela dentro la zucca svuotata: la luce
in testa per sconfiggere paure, streghe, malefici e pilotare lo sforzo
razionale alla conquista del sapere. Illuminazione dunque contro i fantasmi
della non-conoscenza. Sorgono le domande: i grafemi tanto sfruttati dal
Bassanese.
Susseguono
innumerevoli quesiti; effettivamente l’arte più che dare risposte alterna
interrogativi a provocazioni, sillogismi e metafore. I programmi, i manifesti
del XX secolo hanno fatto emergere settoriali angolazioni d’indagine attendendo
l’unanime consenso durante e dopo la progettazione. In molti casi l’adesione
del singolo alla corrente è forzata; un tentativo di mettere d’accordo delle
idee, quasi un’associazione d’insiemi che convergono in una misera appendice di
scopo. Con un segno, con una pennellata è già astrattismo, magari informale … E
il Novecento è stato fecondo di movimenti, o di intenzioni che hanno codificato
correnti.
Man Ray
sostenne che l’amico Duchamp preferì lavorare da solo, senza adattarsi a schemi
plurisottoscritti, né a manifesti.
Toni è
artista individualista, poco disposto a condividere in équipe il pensiero e non
fa neppure “scuola di bottega” pur avendo uno stuolo di estimatori,
collezionisti, amici dalle cave allo studio.
Sono
convinto che abbia ripreso “colore” con la full immersion nell’Altopiano; le
larve in simbiosi con il pubblico e con la natura hanno dato vigore al DNA
creativo. In plein air ha maturato la
disponibilità alla comunicazione, riappropriandosi il ruolo d’Artista. E’ una
ri-nascita della sua produzione: razionale, sincretica, più soppesata rispetto
al linguaggio pittografico della Cava dipinta; l’opera è eseguita nello studio
nel dualistico intimo dialogo io-io.
Esegue
l’autoritratto per autoanalisi e rispondere alle questioni dell’identità
non-certa, inculcata dal “vai sociale”. Cento o forse più le auto
rappresentazioni, autocelebrazioni, auto interrogativi: noumeni. Sono volti
colti nell’essenzialità del segno e del colore, pur evidenziando appieno i
volumi. Ho ravvisato un intrinseco collegamento di continuità con l’arte nera
portata in Europa il secolo scorso.
Lo studio è
il grembo, dove matura il desiderio di esibirsi per cum-dividere. Lo stress
positivo necessita dell’altra oltre al sé per completarsi e per esprimere la
peculiare poetica. Il sillogismo è l’idoneo mezzo. L’ipotesi è creazione
cerebrale: illuminazione, vita interiore, il sé. L’antitesi è nell’incertezza,
nel quesito, nel noumeno. La tesi si auto produce nell’universalizzare ciò che
è dentro, il vissuto che necessita dell’altro fuori da sé. Toni crea le teste
di donna. Ancora cento per logica comparazione ed equilibrio.
Effigi non
belle, tecnicamente non elaborate. La fotografia avrebbe riprodotto
puntualmente donne fatali non gli stati emotivi. Nei volti sono stampate espressioni diverse: il
sorriso, la fissità dell’introspezione, lo sguardo penetrante, … La mimica
facciale continua con il corpo: i nudi.
Donne
sdraiate su divani, su seggiole di vimini sono colte nella meditazione;
nell’intenzione di lasciare allo spettatore il pensiero piuttosto della figura.
Modelle non intenzionate a dare spettacolo con il corpo, ma comunicare il succo
dell’identità. Toni supera l’espressionismo estetico, post-impressionista di
Derain; le figure del bassanese acquisiscono i caratteri introspettivi
analogamente, e più, dell’esibizione dell’io-nudo di Marcella di Kirchner.
Dalle tele e
dai disegni esce l’aria pesante, dura dell’attesa. La femmina colta nel suo essere
tale, senza difese, gravida solamente del desiderio di comunicare la
personalità, repressa sotto gli abiti. La nudità esprime ciò che è dentro,
altrimenti non visto perché occultato dalle vesti: le divise di femmina.
Davanti all’artista c’è l’occasione per raccontare l’identità di donna in piena
libertà.
I nudi di
Zarpellon non sono dunque piacenti, né inducono a pensieri sensuali; la nudità
è disarmata nel proporsi e disarmante nell’autocelebrazione; sono ostentazioni
di esistenzialismo senza vanità.
Comunque
immagini quasi private uscite dallo studio … Lui seduto tra i colori e alle sue
spalle l’opera finita: la modella volta ad osservare l’aprica distesa della
pianura sotto l’Altopiano.
Presentimento
della necessità di uscire, gustare i sapori delle stagioni, il profumo
dell’erba, l’odore dello stallatico e dei ciclamini. Linee d’orizzonte
squassate da monti lontani; terre verdi
e rosse, linee color ruggine e cieli tersi. La scomposizione del paesaggio era posizionata
lì davanti ai miei occhi e sulle sue tele.
La sintesi e
la globalità della visione: faggeti rossi esibivano avvizzite le foglie nella
corale verde dei declivi.
La nuova
Arcadia era forse tra quei monti? Forse sì. Toni m’aspergeva di fumo nella
conversazione. Avvertii Zarpellon forte, filosofo nel puntare al petto il
fioretto delle sue sentenze. Nuovo Courbet esalta lo spirito della vita in una
bucolica neo-Barbizon.
Daumier
avrebbe ancora mostrato i passeggeri di terza classe; Toni non disdegna di
lanciare strali contro gli oligarchi dell’economia… Si sente coinvolto nel
consorzio esistenziale. Satirico, sprezzante, nell’unicità interpretativa
mostra pure il paesaggio quotato in borsa in un grafico di rialzi e cadute
improvvise. Messaggio veritiero come sa fare un artista immune da mediazioni di
parte.
Ho sentito
sotto le suole lo scricchiolio della neve ancora dura sopra le zolle erbose. I
rivoli freddi del disgelo liberano i totem della Cava abitata; le creature
tristi, morte anzitempo, crocifissi dalle macchine che li hanno generati,
rimangono nella pietraia desolata, così come si mostrano ancora facete le
creature larvali variopinte della Cava dipinta.
Reggendo la sigaretta come un tedoforo, maratoneta nel paradiso di
Rubbio ho gustato ancora l’arte, la sua, nelle linee carminio di nubi al
tramonto e nel cupo di verdi lontani. Ho abdicato ogni pensiero razionale ed ho
risentito dentro la poesia.
Vincenzo Baratella
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parte di questo catalogo può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o
con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione
scritta dell’Autore.
© Copyright Vincenzo Baratella
Via Fiume, 18 –
45100 Rovigo
© Foto pr.ema
Toni Zarpellon
è nato a Bassano del Grappa dove vive e lavora. Ha frequentato l'Accademia di
Belle Arti di Venezia. Ha insegnato presso gli Istituti d'Arte di Nove e dei
Carmini di Venezia. Espone dal 1965 in numerose mostre personali e collettive
in Italia e all'estero. Nell'autunno del 1989 inizia gli interventi nelle
"Cave di Rubbio"; una notevole impresa per la quale la comunità di
Rubbio, nell'aprile 1991, gli assegna un riconoscimento.
La sua attività
artistica è documentata presso: l'Archivio Storico A.S.A.C. della Biennale di
Venezia; Fondazione Ragghianti, Lucca; Fondazione Corrente, Milano; Biblioteca Kandinsky,
centro Pompidou, Parigi e altre istituzioni Culturali in Italia e all'estero. Nel
marzo 1999 è stato iscritto all'Albo Nazionale Pittori e Scultori, A.N.P.E.S.
L'opera di Toni
Zarpellon è riportata da Giorgio di Genova nella storia dell'arte italiana del
'900.
Nel 2006 e 2008 si fa
riferimento all’opera del bassanese nelle edizioni Electa "La pittura nel
Veneto - Il Novecento"
E’ presente con
"Cento giorni per cento autoritratti 1999-2000” presso la Sala Ospiti del
"MAGI", Museo d'Arte delle Generazioni italiane del '900, a Pieve di
Cento (BO).
Nel 2008 è invitato
alla rassegna "Arte al bivio -Venezia negli anni sessanta-" a cura di
Nico Stringa, tenutasi presso l'università Cà Foscari. Nel 2011 è uscito, per
le edizioni Napoli Nostra, il volume "Fra tradizione e innovazione -
artisti italiani da non dimenticare" dove Rosario Finto ha preso in
considerazione l'opera di Toni Zarpellon.
Un dipinto del 1973 è
pubblicato nel catalogo della mostra
alla Casa dei Carraresi di Treviso "II pittore e la modella, dal
Canova a Picasso".
A marzo 2008 e in aprile 2011 è allo Studio Arte Mosé
di Rovigo con due personali tematiche. Nel settembre dello stesso anno
espone all’ex-Istituto Statale d'Arte in
Campo dei Carmini a Venezia. Successivamente a Milano riscuote unanimi
consensi. Nel 2013 è tra gli Artisti della Fiera Arte Padova.
© Copyright 2014. Studio
Arte Mosè