MOSTRA COLLETTIVA TEMATICA SU
LA GUERRA
UNA
COLLETTIVA PER DENUNCIARE L’ILLOGICA, ESASPERATA, VIOLENTA, CONTRAPPOSIZIONE DEI
POTENTI.
Cent’anni fa
iniziò la carneficina mondiale; si concluse l’età delle illusioni, del
patriottismo, degli ideali deamicisiani strappa lacrime. La grande guerra
evidenziò i meccanismi di interesse pubblico e privato atti a coinvolgere
governi, partiti, movimenti artistico-letterari e di costume. L’azione di
propaganda e l’attività censoria intenzionate, nelle contrapposte finalità, a
mostrare il volto lecito della guerra, innescarono nell’opinione pubblica il
desiderio della rivendicazione territoriale. Analogamente all’imperativo “Dio
lo vuole”, scandito da papa Urbano nella cattedrale di Clermont, allora per
motivare la guerra santa, la crociata appunto, un secolo fa l’indottrinamento
armò le trincee. Il ‘900 svolse con smodata energia la propaganda: una guerra
doverosa per riscrivere i confini nazionali, rimasti solo ideali già dalla
profetica e romantica aspirazione manzoniana dell’una d’arme, di lingua e
d’altar. Marinetti la giustificò come igiene del mondo e forza idonea per bruciare tutto il
vecchiume del passato. Grotz mostrò generali assetati di vite giovani mutilalate
dalle bombe. L’idea proletaria, già sconfitta dalla miseria, aborriva il clima
disfattista ed interventista.
Le ragioni economiche, quelle
della borghesia industriale che vedeva una risorsa nell’industria bellica,
prevalsero sul buon senso e sui neutralismi. Il pretesto del centenario, nel
contempo denuncia contro qualsiasi manifestazione di belligeranza (giunga essa
dalla parte della “ragione” o del torto), ha indotto all’allestimento della
mostra tematica. Una riflessione a trecento sessanta gradi da parte degli
artisti che si sono avvicendati nella collettiva. Mirta Caccaro, nelle grafiche
omaggia Picasso, con un’evocazione della strage di Guernica durante la guerra
civile spagnola e sottolinea, negli animali umanizzati, la cecità secondo
Saramago. Le xilografie di Osvaldo Forno mostrano le “teste fasciate”, bruciate
dal napalm; sintetizza in maniera efficace l’orrore del Viet Nam. Le opere
dell’artista rodigino furono realizzate a caldo negli anni settanta. Antonio
Dinelli, giovane artista livornese, ha un’evocazione del fenomeno con cavalieri
del passato, un modo personale per sottolineare l’atemporalità della violenza.
Mosè Baratella, in un olio del 1977, mostra la rovinosa ritirata di Russia;
sconfinati spazi gelati marcati dal livore di sangue del sole all’orizzonte e
il milite, in primo piano terrorizzato porta con sé la tragicità della
condizione del Cristo. Salta all’occhio un olio di piccole dimensioni di Impero
Nigiani; l’artista fiorentino ritrae uno spaccato dell’altare della patria: la
fierezza dei cavalli marmorei e una nuvola rossa, una ferita su tanta
immacolata classicità. E’ sulla stessa ara su cui furono immolate le giovani
vite degli “Alpini”interpretate da
Luigi Marcon, con una sinistra poesia degna della più elevata tradizione
romantica. Lino Lanaro coglie il senso della sofferenza in una melanconica
alzabandiera su i resti di ground zero
dopo l’undici settembre. Matteo Faben esprime orrore ne “la privazione”: le gambe
di donna, di madre, continuano a vivere e incedere nonostante il baratro,
eppure il busto, la sede del cuore e degli affetti, è scarnificato; con
meticolosa perizia creativa fa emergere il tema di fondo con una scultura
lignea di grandi dimensioni. “Game over” è
il titolo dell’opera plurimaterica dell’eclettico artista newpop Mariano
Vicentini. Due guerriglieri, neri come la morte, si fronteggiano armati, lo
sfondo è un drappo carminio, il teatro della guerra appunto, e la soluzione è tristemente
scontata: fine del gioco … fine!
Vincenzo
Baratella
Emanuela Prudenziato davanti a una scultura di Matteo Faben
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