SABATO 29 NOVEMBRE 2014 ALLE ORE 17,30 PRESSO LA LIBRERIA PAVANELLO, VIA SILVESTRI 59, A ROVIGO, SARA’ PRESENTATO IL LIBRO DI VINCENZO BARATELLA “Estrema protesta”, all’interno del “1° criterium lettori Italo Svevo”: selezione libri fatta da giuria di soli lettori.
Alla rassegna saranno presenti l’autore Vincenzo Baratella e l’editore Alberto Gaffi.
Vincenzo BARATELLA, laureato a Padova, vive a Rovigo, insegna lettere in una scuola pubblica ed è curatore critico dello Studio Arte Mosè. Ha presentato numerosi Poeti e Artisti. Ha redatto cataloghi d’arte. Tra le pubblicazioni sono da ricordare: Scuola, La più grande eredità, Memoria di Fulberto: ricostruzione delle vicende che ebbero per protagonista il canonico di Parigi, Eloisa e il filosofo Abelardo. Per Pinocchio la fatina c’è sempre: saggio critico sulla società, politica e cultura della seconda metà ’800 e concreta ricaduta nella contingente verità odierna. Sul Web emergono contenuti e aspetti stilistici dell’Autore.
IL LIBRO:
Estrema protesta Vicenda vera e attuale. Sacrifici di una famiglia artigiana nell’ascesa al benessere. Le commesse non pagate dalla pubblica amministrazione, i debiti, la mortificazione economico-psicologica inducono a un tragico epilogo.
La Dott.ssa Emanuela Prudenziato, coordinatrice dell'incontro presso la libreria Pavanello.
Al centro l'attore Tosi che interpreterà la figura di Italo Svevo giovane.
L'editore Alberto Gaffi della ITALOSVEVO, editrice in Trieste dal 1966.
L'autore Vincenzo Baratella e l'editore Alberto Gaffi alla presentazione del libro.
da sinistra: Baratella, Gaffi e Tosi
sabato 29 novembre 2014
martedì 4 novembre 2014
LORENZETTI: il conflittuale dialogo interiore
Presenta
RAIMONDO
LORENZETTI
ARTISTA
VERONESE ALLA 54ª BIENNALE INTERNAZIONALE D’ARTE DI VENEZIA
INAUGURAZIONE SABATO 15
NOVEMBRE 2014 - ORE 18.00
PRESSO STUDIO
ARTE MOSE’
VIA FIUME 18
- 45100 ROVIGO
RASSEGNA DAL 15 NOVEMBRE
AL 4 DICEMBRE 2014
nei giorni feriali dal lunedì al venerdì dalle 16,30
alle 19,30
info: studioartemose@live.it
RAIMONDO
LORENZETTI:
Il conflittuale dialogo interiore
L’artista veronese è prima di
tutto un amico; il silenzioso personaggio riflessivo nei dialoghi, privo di
dialettica ciarliero-superficiale, e disponibile a condividere piuttosto che
dissentire. Da qualche decennio ho assistito alla sua evoluzione artistica, a
quel cammino faticoso in salita, comunque non privo di successi. La sua non è
un’arte facile, né leggibile; bisogna conoscere il soggetto uomo per tentare
l’approccio alla decodifica del tema. L’oggetto è in buona sostanza
l’identificazione con il soggetto stesso. Un binomio inscindibile. Attraverso i
contenuti dell’opera Raimondo espone il messaggio criptato. Il quadro, piccolo
o di grandi dimensioni, è un pensiero intimo espresso: è la porzione di una
foto-relazione messa a fuoco, in attesa di completare il puzzle attraverso
altre, innumerevoli tessere a contenuto introspettivo. Ogni dipinto è dunque
porzione del contenuto privato nella tensione d’instaurare il dialogo
transferenziale con l’altro. Un approdo per fidarsi e sul quale stabilire la
fiducia per liberare l’intimo e raccogliere la spinta d’amore. A prima vista le
sue creature sono figure esternamente irreali, ma con indubbia vitalità
interiore. Figure umane, animali e cose presenti in un amalgama del
rappresentato finalizzato a compattare in sequenze i comportamenti, i
conflitti, le passioni, i drammi d’amore del genere umano … i suoi. Quella di
Lorenzetti è una pittura introspettiva e ricca di argomenti e di problematiche,
gli stessi generati dalla psiche in dialoghi intimi. E’ un’arte di autoanalisi.
Lorenzetti rientra nel filone degli artisti che si librano sul filo sottile tra
il lecito e l’illecito, tra l’amore e la sofferenza, tra l’esperito e il
desiderio di esperire, tra il vissuto e la mancanza delle occasioni. E’ una
pittura senza il comune denominatore della collocazione di corrente; è una
personalissima rappresentazione dell’io e dell’inconscio. Se si volesse fare il
raffronto epidermico è un Bosch del terzo millennio, comunque con i doverosi
distinguo. Ci sono simboli ricorrenti: le nuvole gravide di maternità mancate,
pesci di dubbia matrice evangelica, animali con sguardi troppo umani e
compiacenti dell’animalità comune, esseri umani protesi in giochi di
contorsionismo e di sezioni mancanti … fette di personalità non rivelata. Analogamente al grande
fiammingo scruta dalla “finestra”: un pertugio dal quale setaccia ciò che
avviene tra gli uomini e dentro agli stessi nell’interscambio sociale, sia nel
bene sia nel male. Sovente è quest’ultima la componente acuita dalla quale
emerge il “male di vivere”; in effetti l’uomo di Raimondo è arrivista, di bella
presenza, elegante o casual nell’abbigliamento, con o senza carne, con protesi
di legno quasi a sorreggere a tutti i costi il ruolo assunto nell’interscambio
economico-sociale. Donne dalle strane posture degne di un eclettico pudico Kamasutra,
avvolte, sorrette da nubi del desiderio, tentate dal maschio con l’indicibile
lentezza di animali metamorfosati che acquistano forme di maliziose lente
creature sotto il carapace di tartaruga o la corazza d’armadillo … C’è tutta
l’umanità nascosta, censurata dal superio collettivo nell’opera di Lorenzetti;
c’è sostanzialmente quello che vede e ha visto. Supera le angosciose
levitazioni, le materne icone bendate di Magritte; si stacca da presenze fantasma
di Delvaux; né rivela la malizia “adulta” di Balthus, sebbene abbia tonalità
verde-ocra omogenee e simboli da suggerire una comparazione con i tre grandi.
Raimondo Lorenzetti è poeta classico all’interno dell’arte psicologica
analitico-freudiana. Ogni opera è porzione di indagine interiore, di
rivisitazione dell’esperienza vissuta o solamente desiderata. La mostra
esibisce dunque prospettive esistenziali, pagine di un libro aperto sull’intimo
dell’uomo e dell’artista.
©Vincenzo Baratella
Opere ad olio di Raimondo Lorenzetti
Lo studio dell'Artista Raimondo Lorenzetti ed Emanuela Prudenziato
LORENZETTI: il rebus
L’espressione pittorica di
Lorenzetti è stata determinante per comprendere l’evoluzione del suo pensiero.
Dalle prime rappresentazioni di reminescenza medioevale, ad una prima lettura,
ad un continuo rebus esistenziale con i tasselli fondamentali: la nascita, le
scelte, la famiglia, il potere, la comunicazione, i rapporti fra individui, la
fatica del quotidiano, il senso della cultura e tutto ciò che può rimanere
problema, realtà irrisolta. Nelle sue opere vengono rappresentati individui in
primo piano ed elementi infrastrutturali sullo sfondo, costanti sono le nuvole
sulla sommità di pali o appese a fili sottili, animali domestici e non dalle fisionomie
antropomorfe almeno nello sguardo. I suoi quadri non possono lasciare
indifferente l’osservatore. Chi guarda
queste realizzazioni pittoriche si addentra quasi fatalmente nelle
singole situazioni illustrate. Come un
lettore, lo spettatore accetta il patto narrativo che lo porta a seguire
fino in fondo il racconto
dell’artista.
Emanuela
Prudenziato
Tre opere di Raimondo Lorenzetti alla 54^ Biennale d'arte di Venezia
martedì 7 ottobre 2014
ROBERTO RAMPINELLI
RAMPINELLI: tonalità pacate per gustare il ricordo.
Curatore: Vincenzo Baratella
Studio Arte Mosè
dal 25 ottobre al 13 novembre 2014
Sabato 25 ottobre 2014 alle ore 18,00 lo Studio Arte Mosè di Rovigo presenta la personale di Roberto Rampinelli.
Ci sono espressioni d’arte che si prediligono rispetto ad altre; forse per il modo inusuale dell’esecuzione, forse per l’impatto emotivo con il fruitore, l’incisione ha un fascino particolare. Lo Studio Arte Mosè ha presentato molte rassegne di grafica -termine generico per separare una tipologia d’arte visiva dalla tecnica olio-acrilico, maggiormente conosciuta- e in ognuna sono emersi momenti, idee e soluzioni originali, concordi, divergenti. E’ indubbio che l’incisione sia idonea a meglio esprimere la ricerca formale dell’Artista, ovvero l’originalità nell’incisione al nero, nella xilografia, nell’inoleumgrafia, nella ceramolle, nell’acquaforte, nella puntasecca. Magistrali tutti i “miei” artisti, nessuno di serie B; mancava all’appello Roberto Rampinelli. Nato a Bergamo, vive e lavora tra Milano, Urbino e Amer (Catalogna – Spagna). Ha frequentato la Scuola Superiore d’Arte del Castello Sforzesco di Milano e i Corsi Internazionali di Tecnica dell’Incisione di Urbino, sotto la guida di Carlo Ceci per la litografia e di Renato Bruscaglia per l’incisione. Si avvale della Stamperia D’Arte “g.f.” di Urbino. La sua produzione figura in prestigiose collezioni pubbliche e private. Rampinelli mostra effetti che sposano morbidezza di tratto, tonalità velate come fossero rese omogenee dal tempo. Analogamente l’opera pittorica dell’Artista bergamasco riporta atmosfere soffuse, smorzate dall’usura, come nelle cartoline del ricordo. La staticità temporale per soppesare gli oggetti amati nella realtà e rivissuti dal cuore in una dislocazione spaziale che coglie l’individualità contrapposta alla generica-superficiale globalità. Sono singoli elementi posati in uno scenario cromatico tenue con lo specifico intento di evocare attimi di serenità vissuta. Lo sfumato, apparentemente monocromatico nei toni caldi giunge crepuscolare nella dimensione intima dell’evocazione: il languido souvenir di una conchiglia, di un frutto, di un fiore. Con inusuale perizia tecnica Roberto Rampinelli dà la patina antica alla poesia delle “buone cose” attraverso l’olio su carta: la materia grassa assorbita dalla cellulosa riduce la violenza tonale dei contrasti per far riposare l’occhio su ciò che è stato visto, ritratto e amato. [©V.B.]
Curatore: Vincenzo Baratella
Studio Arte Mosè
dal 25 ottobre al 13 novembre 2014
Sabato 25 ottobre 2014 alle ore 18,00 lo Studio Arte Mosè di Rovigo presenta la personale di Roberto Rampinelli.
Ci sono espressioni d’arte che si prediligono rispetto ad altre; forse per il modo inusuale dell’esecuzione, forse per l’impatto emotivo con il fruitore, l’incisione ha un fascino particolare. Lo Studio Arte Mosè ha presentato molte rassegne di grafica -termine generico per separare una tipologia d’arte visiva dalla tecnica olio-acrilico, maggiormente conosciuta- e in ognuna sono emersi momenti, idee e soluzioni originali, concordi, divergenti. E’ indubbio che l’incisione sia idonea a meglio esprimere la ricerca formale dell’Artista, ovvero l’originalità nell’incisione al nero, nella xilografia, nell’inoleumgrafia, nella ceramolle, nell’acquaforte, nella puntasecca. Magistrali tutti i “miei” artisti, nessuno di serie B; mancava all’appello Roberto Rampinelli. Nato a Bergamo, vive e lavora tra Milano, Urbino e Amer (Catalogna – Spagna). Ha frequentato la Scuola Superiore d’Arte del Castello Sforzesco di Milano e i Corsi Internazionali di Tecnica dell’Incisione di Urbino, sotto la guida di Carlo Ceci per la litografia e di Renato Bruscaglia per l’incisione. Si avvale della Stamperia D’Arte “g.f.” di Urbino. La sua produzione figura in prestigiose collezioni pubbliche e private. Rampinelli mostra effetti che sposano morbidezza di tratto, tonalità velate come fossero rese omogenee dal tempo. Analogamente l’opera pittorica dell’Artista bergamasco riporta atmosfere soffuse, smorzate dall’usura, come nelle cartoline del ricordo. La staticità temporale per soppesare gli oggetti amati nella realtà e rivissuti dal cuore in una dislocazione spaziale che coglie l’individualità contrapposta alla generica-superficiale globalità. Sono singoli elementi posati in uno scenario cromatico tenue con lo specifico intento di evocare attimi di serenità vissuta. Lo sfumato, apparentemente monocromatico nei toni caldi giunge crepuscolare nella dimensione intima dell’evocazione: il languido souvenir di una conchiglia, di un frutto, di un fiore. Con inusuale perizia tecnica Roberto Rampinelli dà la patina antica alla poesia delle “buone cose” attraverso l’olio su carta: la materia grassa assorbita dalla cellulosa riduce la violenza tonale dei contrasti per far riposare l’occhio su ciò che è stato visto, ritratto e amato. [©V.B.]
Vincenzo Baratella e Roberto Rampinelli
Un momento della rassegna
giovedì 2 ottobre 2014
Luigi Marcon
Marcon: il coraggio dell'arte.
Personale di Luigi Marcon allo Studio Arte Mosè di Rovigo
dal 27 settembre al 16 ottobre 2014
Personale di Luigi Marcon allo Studio Arte Mosè di Rovigo
dal 27 settembre al 16 ottobre 2014
LUIGI MARCON
E’ una presenza
piacevole e consolidata allo Studio Arte Mosè; l’Artista di Vittorio Veneto si
è formato all’Istituto d’arte di Venezia sotto la guida di Dalla Zorza e Dinon,
dai quali apprese l’arte dell’incisione, che perfezionò presso il Centro
Internazionale della Grafica con Licata. Dal 1960 partecipa a rassegne di
grafica nazionali e internazionali ed
espone in numerosissime personali in Italia e all’estero. E’ altresì
ricordato per il francobollo, emesso in Germania nel 2004: l’opera per la
stampigliatura è stata realizzata in occasione dell’ottocentesimo anno dalla
fondazione della città di Landshut. Ha insegnato ed insegna l’arte della calcografia. Ha eseguito
oltre quattromila lastre, tutte stampate personalmente con torchio a stella. Le
sue grafiche lo classificano come un
incisore attento nella scelta dei soggetti:
vedute note, chiese, abbazie, castelli. In ognuna c’è la scelta dello
scorcio atto a rendere poetica la porzione di paesaggio rappresentato. La
perizia tecnica è meticolosa: linee decise, comunque mai forzatamente
geometriche; ora marcate ora impercettibili nel reticolo dei volumi. I sapienti
tocchi con lo zucchero, il sale, per dare chiazze di morbidezza all’acquatinta,
ceramolle. Le stampe sono sempre limitatissime di numero per tributare l’opera pregevole;
effettivamente non sarebbe motivata l’eccesiva produzione cartacea, visto il
considerevole numero di matrici eseguite dall’Artista. Raggiunse un livello esecutivo superlativo
nei castelli della Germania e nelle “Delizie” estensi; non da meno sono i
paesaggi con suggestivi particolari: gli alberi, la pieve, il casone di valle …
Marcon, noto per le sue incisioni, non ha disdegnato le tecniche più usuali dei
pittori. Ricordo oli pregevoli degli anni settanta, ottanta… Poi un repentino
cambiamento; la stasi forzata. “L’incidente è stato una lezione di interiorità
e di ulteriore sguardo sull’infinito”, ha dichiarato l’artista trevigiano, in
seguito alla disgrazia capitatagli in montagna. Una lenta ripresa fisica, ma
sovrumana nella volontà per essere presente nel mondo dell’arte con la Sua opera.
Ha ripreso a dipingere, secondo il carisma classico, ad olio; come sempre con
il gusto poetico del tema, ancora con più tenacia… una spinta interiore
dall’arte per dare colore alle sue straordinarie creature.
Vincenzo
Baratella
mercoledì 10 settembre 2014
LA GUERRA
DAL 6 AL 25 SETTEMBRE 2014
MOSTRA COLLETTIVA TEMATICA SU
LA GUERRA
Vincenzo Baratella illustra Desaparesidos, olio su tela di Mosè Baratella
MOSTRA COLLETTIVA TEMATICA SU
LA GUERRA
UNA
COLLETTIVA PER DENUNCIARE L’ILLOGICA, ESASPERATA, VIOLENTA, CONTRAPPOSIZIONE DEI
POTENTI.
Cent’anni fa
iniziò la carneficina mondiale; si concluse l’età delle illusioni, del
patriottismo, degli ideali deamicisiani strappa lacrime. La grande guerra
evidenziò i meccanismi di interesse pubblico e privato atti a coinvolgere
governi, partiti, movimenti artistico-letterari e di costume. L’azione di
propaganda e l’attività censoria intenzionate, nelle contrapposte finalità, a
mostrare il volto lecito della guerra, innescarono nell’opinione pubblica il
desiderio della rivendicazione territoriale. Analogamente all’imperativo “Dio
lo vuole”, scandito da papa Urbano nella cattedrale di Clermont, allora per
motivare la guerra santa, la crociata appunto, un secolo fa l’indottrinamento
armò le trincee. Il ‘900 svolse con smodata energia la propaganda: una guerra
doverosa per riscrivere i confini nazionali, rimasti solo ideali già dalla
profetica e romantica aspirazione manzoniana dell’una d’arme, di lingua e
d’altar. Marinetti la giustificò come igiene del mondo e forza idonea per bruciare tutto il
vecchiume del passato. Grotz mostrò generali assetati di vite giovani mutilalate
dalle bombe. L’idea proletaria, già sconfitta dalla miseria, aborriva il clima
disfattista ed interventista.
Le ragioni economiche, quelle
della borghesia industriale che vedeva una risorsa nell’industria bellica,
prevalsero sul buon senso e sui neutralismi. Il pretesto del centenario, nel
contempo denuncia contro qualsiasi manifestazione di belligeranza (giunga essa
dalla parte della “ragione” o del torto), ha indotto all’allestimento della
mostra tematica. Una riflessione a trecento sessanta gradi da parte degli
artisti che si sono avvicendati nella collettiva. Mirta Caccaro, nelle grafiche
omaggia Picasso, con un’evocazione della strage di Guernica durante la guerra
civile spagnola e sottolinea, negli animali umanizzati, la cecità secondo
Saramago. Le xilografie di Osvaldo Forno mostrano le “teste fasciate”, bruciate
dal napalm; sintetizza in maniera efficace l’orrore del Viet Nam. Le opere
dell’artista rodigino furono realizzate a caldo negli anni settanta. Antonio
Dinelli, giovane artista livornese, ha un’evocazione del fenomeno con cavalieri
del passato, un modo personale per sottolineare l’atemporalità della violenza.
Mosè Baratella, in un olio del 1977, mostra la rovinosa ritirata di Russia;
sconfinati spazi gelati marcati dal livore di sangue del sole all’orizzonte e
il milite, in primo piano terrorizzato porta con sé la tragicità della
condizione del Cristo. Salta all’occhio un olio di piccole dimensioni di Impero
Nigiani; l’artista fiorentino ritrae uno spaccato dell’altare della patria: la
fierezza dei cavalli marmorei e una nuvola rossa, una ferita su tanta
immacolata classicità. E’ sulla stessa ara su cui furono immolate le giovani
vite degli “Alpini”interpretate da
Luigi Marcon, con una sinistra poesia degna della più elevata tradizione
romantica. Lino Lanaro coglie il senso della sofferenza in una melanconica
alzabandiera su i resti di ground zero
dopo l’undici settembre. Matteo Faben esprime orrore ne “la privazione”: le gambe
di donna, di madre, continuano a vivere e incedere nonostante il baratro,
eppure il busto, la sede del cuore e degli affetti, è scarnificato; con
meticolosa perizia creativa fa emergere il tema di fondo con una scultura
lignea di grandi dimensioni. “Game over” è
il titolo dell’opera plurimaterica dell’eclettico artista newpop Mariano
Vicentini. Due guerriglieri, neri come la morte, si fronteggiano armati, lo
sfondo è un drappo carminio, il teatro della guerra appunto, e la soluzione è tristemente
scontata: fine del gioco … fine!
Vincenzo
Baratella
Emanuela Prudenziato davanti a una scultura di Matteo Faben
EREDITA' MORANDI
EREDITA’
MORANDI
dal 31/05/14 al 19/06/14 allo STUDIO ARTE MOSE'
UNA
COLLETTIVA DI GRANDI INCISORI PER RICORDARE I CINQUANTANNI DALLA SCOMPARSA DEL MAESTRO
BOLOGNESE.
L’esperienza incisoria che utilizza la
visione essenziale degli elementi esterni declina in brevi tratti l’idea di un
paesaggio, di un oggetto, fra ombre e
luci che appartengono alla mentalità dell’epoca in cui vengono realizzate. La staticità degli elementi:
bottiglie con la loro polvere che è non solo accumulo di esperienza, del tempo, un tentativo di
fermare il continuo fluire del mondo, delle sue contraddizioni intrinseche; il
vuoto degli oggetti è come
l’impossibilità dell’agire, un
nichilismo estatico-estetico racchiuso nelle suppellettili sempre uguali a se
stesse. Nei paesaggi i tratti regolari rompono l’armonia delle linee naturali,
sottolineano la frattura, lo spezzettamento della visione,
del pensiero frantumato,
irrecuperabile nella sua interezza, nella ricerca di un obiettivo, di
ricostruire valori negati, dimenticati,soprattutto per coloro che,come Morandi,
hanno vissuto e tentato di razionalizzare il trauma dell’evento bellico.
Dall’analisi delle singole
esperienze incisorie possiamo
osservare come Pio Penzo
abbia realizzato le sue opere
dedicate ai paesaggi veneti – veneziani
seguendo la tecnica di Morandi e con
esito felice perché il modello è stato
rielaborato dalla sensibilità, dalla cultura del Maestro salesiano.
L’incisore Marcon adotta accorgimenti che rendono l’immagine fluida,
come appena uscita da un acquerello,
sospesa, una riflessione sulla visione del mondo circostante.
Nell’opera
di Tregambe
le numerose morsure, l’utilizzo della punta secca fanno emergere momenti
dell’anima, la nostalgia del tempo trascorso, gli affetti mancati. La
solitudine dei luoghi, degli oggetti sono un racconto silenzioso dei ricordi.
L’esercizio del ricordo
si stempera nei paesaggi, negli ambienti
della quotidianità ormai trascorsa, ma che è dentro ognuno di noi, è
il nostro vissuto di altri tempi, di altri momenti.
Completano la rassegna le
opere di Dal Prà,
Calabrò anch’esse di indiscussa perizia tecnica, tra le
altre merita menzione
l’acquaforte di Tono Zancanaro impressa
presso la stamperia Busato di Vicenza, rinomata per aver divulgato l’opera dei più significativi incisori del
secolo scorso. Nella collettiva non manca una
punta secca del 1940 di Angelo
Prudenziato, amico e allievo di Giorgio Morandi assunto come pretesto nominale in occasione del cinquantesimo della
scomparsa.
Emanuela
Prudenziato
Angelo Prudenziato,, Nudo
LA DONNA
DAL 3 AL 22 MAGGIO 2014
PERSONALE TEMATICA DI MARIANO VICENTINI
SU LA DONNA
PERSONALE TEMATICA DI MARIANO VICENTINI
SU LA DONNA
Mariano Vicentini è un artista sui generis,
fuori dal contesto di qualsivoglia corrente pur emergendo nella comunicazione
adepto della popular art, la quale nello
sfogo più immediato colse i desideri della massa per l'oggetto da fruire subito
e a basso costo. Tuttavia l'artista veronese al bene di consumo aggiunge il
tema di fondo, il motivo conduttore: le ansie, le paure, le previsioni, le
imposizioni. Insomma l'oggetto in sé diventa pretesto per argomentare e far
pensare. La pop art di Vicentini non
è dunque circoscritta all'informativa del prodotto, né alla riflessione
provocata dalla merce. L’adesione indiretta con il movimento artistico citato è
visibile nell'esplosione cromatica dell’acrilico, nell'utilizzo di collage, nell'inserzione
di svariati materiali, nell’estroflessione in alcuni suoi lavori. Se manca
qualcosa per definire il concetto da comunicare egli si avvale delle parole: i
suoi aforismi, citazioni per dare maggiore efficacia al messaggio. Nella
fattispecie la protagonista della rassegna è lei. Una narrazione tutta sul
femminile dove la tematica dell’opera diventa sincronica alla spettacolarità
dell'immagine. La donna oggetto e\o soggetto, secondo i ruoli e le relazioni nei
quali è stata contestualizzata. Mariano Vicentini, da sempre innamorato del sinolo
femminile perfetto, molto più dell'uomo commisto di umanità e sensibilità, ha
voluto contrassegnare un percorso apologetico attraverso la ventina di opere
esposte. La donna mostrata nel suo molteplice apparire: la madre protettrice,
severa nel custodire la prole, la femmina fatale, la velina, la soldatessa sia
essa bianca o nera, cristiana o islamica, ferma a difendere anche con le armi
il nascituro in grembo. L'artista non esclude il femminino, né l’essenza delle
qualità sensuali desiderabili, solitamente associate alla ricchezza e alla moda;
non è casuale il connubio della procace creatura coniugata alla moto super
cromata. Non mancano le provocazioni contro il maschio, sia esso protagonista
sociale e dio nelle religioni, cui si contrappone una dea madre, forse la bona dea romana che segna la sua
sindone. Ricaduta in una realtà quotidiana di sfruttamento e servilismo nella
quale, dopo l’arcaica parentesi di matriarcato, la donna è stata relegata. Il pater familias, l’uomo, è anche padrone.
Vicentini nel suo percorso narrativo non lima, non taglia gli spigoli, né
ammorbidisce i toni del messaggio, va a sollevare il velo polveroso del
perbenismo per mostrare non solo scheletri, ma figure violate anche dentro gli
armadi. Nei suoi temi non manca la denuncia sulla violenza privata, sull'incomunicabilità
della donna nell'interscambio sociale. Nell'isolamento e nella fuga dalla
realtà subentra lo sconforto, la depressione che si conclude con l'auto
annientamento nel bagno di casa o nel
lasciarsi andare con un bicchiere di troppo in un anonimo bar di provincia. Vincenzo Baratella
Emanuela Prudenziato alla vernice di Mariano Vicentini
L'Artista Mariano Vicentini davanti alle sue opere
UNA
MOSTRA SULLA DONNA
DA UN PUNTO DI VISTA FEMMINILE
E’ un viaggio ad occhi
aperti l’immersione nei colori parlanti delle opere di Mariano
Vicentini. Ogni scena è un
dialogo interiore, un’analisi dell’esistenza vista da un narratore onnisciente,
raccontata con la forza dell’immagine, una trasposizione dei propri incubi
simbolicamente legati dalla determinatezza dei colori. La spazialità, la
disposizione degli elementi, dei
personaggi presenti è un rebus. Il rebus
della realtà, un gioco enigmatico
che non ha vincitori o vinti
perché è solo la vita a
determinare, a gestire gli eventi, le
regole della “strana” partita, dove le regole del gioco non sono mai le stesse,
prevedibili e nessuno conosce le mosse corrette. Rimangono solo la sospensione dell’immaginazione, della
riflessione.
Emanuela Prudenziato
Vincenzo Baratella presenta l'Artista
DECENNALE.. Ricordo di Mosè a dieci anni dalla scomparsa
Dal 12 al 30 aprile 2014
una retrospettiva su Mosè Baratellaper ricordare l'Artista a dieci anni dalla scomparsa.
In Galleria Studio Arte Mosè è disponibile il catalogo delle opere.
Mosè Baratella Ritirata di Russia olio su tavola
sabato 15 febbraio 2014
TREGAMBE GIROLAMO BATTISTA:
RISTORO INTERIORE DALLA NATURA
NELL'OPERA GRAFICA DI GIROLAMO BATTISTA TREGAMBE
NELL'OPERA GRAFICA DI GIROLAMO BATTISTA TREGAMBE
RISTORO INTERIORE DALLA NATURA
Il mio cruccio, un risentimento legittimo per chi ama il
bello, è di non averlo conosciuto prima. L’individuazione per “avere” un
Artista è una delimitazione egoistica, forse condivisibile con coloro i quali
ambiscono includere questo nella cerchia dei protagonisti. E’ un desiderio
privato, peculiare degli storici dell’arte, dei critici, dei curatori in
generale. L’incontro compensa comunque
il tempo andato. Con Tregambe si recupera pure il passato: quello esperito e
ritrovato nel ricordo. La grafica del bresciano aspira l’età dell’oro,
dell’innocenza, della rappresentazione arcadica. L’Artista esclude dall’opera
la presenza umana. Indubbiamente un merito. Lo scopo è di evitare comparazioni
temporali tra la modernità contingente e l’immutabilità della Natura.
Leopardiana accezione dell’infinito nel tempo: perpetuare la gratificazione
interiore attraverso ciò che circonda; uno scenario inviolato adatto a
infondere sentimenti ed emozioni all’uomo stesso. Girolamo Battista è un
incisore meticoloso, e si evince nel segno delle sue grafiche; effettivamente i
toni scuri sono il risultato di un saturare con la ripetitività del segno. Un
gioco di ombre e luce, di contrasti per rendere il volume dei corpi. Non si
ravvisa la struttura portante del disegno dell’oggetto, sintetica alla stregua
della grafica espressionista tedesca, né il virtuosismo estetico di Doré, né il
morandiano reticolo per i volumi, tantomeno la raffigurazione concettuale di
Dürer, con cavalieri apocalittici nel messaggio della Riforma. In Girolamo Battista Tregambe si
arguisce una continuità romantica nell’accezione più genuina. La zolla di A. Dürer è il particolare da
cui completare la globalità del paesaggio, l’interezza della sinfonia e l’avvio
della poesia evocativa. Come non ricordare nell’ “Estate nel brolo” il ritratto
indiretto degli affetti anche non esplicitamente espressi. La sedia impagliata
su cui sedevano figure parentali; il quotidiano per esibire l’inculturazione
attenta alle notizie; l’annaffiatoio per ravvivare i fiori del giardino … Sullo
sfondo la casa: “crepuscolare” tranquillità domestica. Girolamo Battista mi
disse che i paesaggi delle sue acqueforti sono ispirate e colte prevalentemente
dai luoghi reali limitrofi a Botticino. Vero. Gorgogliano rivi d’acque
cristalline sui quali poggiano ponti precari d’assi di legno, innevati per
rendere ancor più immacolata la terra delle sue radici. Immagini di un languore
inusuale, ricco di sentimento neoromantico. Poesia dunque fissata sulla lastra
di rame, scavata dall’acido e stampata con l’amore di chi vuole rendere
partecipe altri a sensazioni indicibili. Sono segni copiosi, innumerevoli,
leggeri per dare sostanza nella morsura, contro il segno secco di punta. Al
tatto la stampa palesa una sinfonia di leggere linee; il tratteggio entusiasta,
come biscrome sullo spartito. Le pause: chiazze di luce; i riverberi del sole
pallido tra maglie di una rete di recinzione ricoperta di galaverna. Intorno la
soffice consistenza della nevicata … Da tutto quel freddo esterno Tregambe
ravviva il calore interiore: incommensurabile amore per la vita e per il
creato.
Vincenzo Baratella
© Copyright Vincenzo Baratella 2014
Emanuela Prudenziato, Girolamo Tregambe e Vincenzo Baratella
Girolamo Battista
Tregambe, nella notte di Pasqua, si è
addormentato per sempre. L’arte ha perso un eccelso Maestro e la società un
membro di immensa umanità. L’uomo e l’artista: perdite incolmabili. Lo Studio
Arte Mosè, Vincenzo Baratella, Emanuela Prudenziato,
commossi, partecipano al dolore della famiglia, dell’amico Roberto Bodei e di quanti lo conobbero.
Girolamo Battista è e resterà sempre nei
nostri cuori e la Sua maestria nell’incisione sarà testimonianza nel tempo. (Pasqua 2015)
L'Artista Tregambe Girolamo Battista al lavoro.
Roberto Bodei e Girolamo Battista Tregambe
Girolamo Battista Tregambe e Vincenzo Baratella
Foto in Galleria con Artista
Vincenzo Baratella: NOUMENO PER ZARPELLON
Vincenzo
Baratella illustra il noumeno
per Zarpellon:
un
percorso tematico concettuale di cinquanta anni nell’Arte.
NOUMENO
PER ZARPELLON
Nell’epoca
della “mostra-mania” è arduo ricoprire il ruolo del curatore critico. Il più
delle volte, per chi lo fa di mestiere -non è il mio caso-, rischia di
sconfinare nelle fila dei pennivendoli: marinisti ridondanti di termini senza
contenuti… La scopiazzatura delle frasi fatte, dei luoghi comuni delle metafore
ovvie e obsolete.
La critica
d’arte intesa come mestiere di avvocato di difesa dell’opera del pittore è ciò
che si rileva tra i pieghevoli nelle personali con tanto di citazioni e forzati
raffronti. Un management di epigrammi e massime da Lotto a Veronese, da Tiziano
a Rembrandt, da Segantini a Schiele, da Klimt a Basquiat per far nascere dai
neuroni: “la bellezza delle forme, il cromatismo equilibrato e la bravura a
trecentosessanta gradi”. Sono intere cartelle e opere, critici e pittori con il
demerito di contribuire, con la domanda e il consumo, a rincarare la carta, le
tele e i colori. L’artista, con la A maiuscola, non ha bisogno di inutili
parole, né di difensori dell’opera, tantomeno di penne al servizio del
Mecenate; sa parlare di sé e per sé unitamente al prodotto dell’arte esibito.
Toni Zarpellon è uno di questi. E in alcuni casi è stato problematico esporre a
parole ciò che il suo animo ha mediato con l’opera. Oltre al perché e al come davanti
agli occhi c’era il quadro e in sincronia emergeva la “spiegazione”.
Che cosa ho
fatto? Conoscendo Toni da anni e condividendo un’amicizia spontanea e
intellettuale ho solo interpretato l’intenzione, le motivazioni e gli stati
d’animo. Non so se ciò sia tanto o poco, o sufficientemente adatto a scrivere
di un Artista e della sua opera. Non vorrei scadere nella trattazione diarista,
tantomeno nell’apologetica compattazione dei termini… deleteria forma per
celebrare l’amicizia piuttosto del demiurgo. Il rischio è non fare quello che
ho sopra contestato.
Toni è
dunque artefice nel suo genere; è il pittore che graffia nervosamente i
pastelli sulla carta, stende i colori senza la titubante paura degli
accostamenti: viola e giallo, verde e rosso, grigi e blu.
Sono i suoi
avvicendamenti emotivi: s’arrabbia e si consola; palesa sconforto e si rialza
scrollando la polvere della banalità, diffusa alla stregua dell’ignoranza.
Effettivamente chi crede di sapere è di gran lunga maggiore di coloro che
“sanno di non sapere”, così come abbondano i commentatori degli storici della
filosofia senza essere filosofi, pur professandosi tali. Perciò nell’oceano
della mediocrità tentare di essere critico, con serietà mentale, vale dire far
filosofia dell’arte: speculare su di un fenomeno umano interagente con la
società e proiettato al futuro con le Weltantschuungen condivise o
condivisibili.
Legittimare
attraverso l’indagine speculativa il “noumeno” prodotto artistico del
bassanese. Il tentativo è quello di superare “la barriera del suono”: un volo
pindarico per mettere “in mostra” l’Artista e la sua arte. L’uomo l’ho
conosciuto bene. Nella mente ho ritagliato le immagini che ritengo più
significative: la sigaretta fumigante tra le dita e l’occhio fisso oltre la mia
presenza, intento a sintetizzare il paesaggio dell’Altopiano.
Sono stato
migrante nel suo studio ed ho visto, non amato nella concupiscente frenesia
della soddisfazione del piacere, le sue “donne”. I nudi: nulla più di
terribilmente duro, antiestetico oltre l’obesità di Rubens, introspettivi fino
all’ultimo atto dell’analisi psicologica. Non ho visto donne sdraiate sui
canapè ricoperti da asciugamani; sopra ai teli da bagno c’erano presenze
scomode che si esibivano su improvvisati banchi di dissezione. Non certo la vecchia
lezione di Rembrandt, fredda, morta, distaccata esclusivamente scientifica, ma
una inusuale vivisezione senza liquidi biologici sparsi. Stanche, tristi,
ritorte in posizioni fetali -posizione del ritorno al piacere-, abbandonate
nell’esibire una sensualità non sfruttata, ho visto un’altra, autentica
immagine della donna. Sdraio, divani, poltrone, foderate di teli colorati, non
erano altro che i tavoli d’anatomia sui quali si esamina l’animo e Toni fa la
biopsia introspettiva e comparativa.
Seziona i sentimenti
e concretizza il momento del transfert. La donna spogliata non è oggetto (mai
l’improprio paragone con le mariline pop), ma protagonista di un piacere
intimo, di una sofferenza, di un’esibizione, di un confronto, di una
compartecipazione con il mondo. Toni è veicolo; traduttore per i più di uno
stato emotivo con una immagine fruibile.
Azzardai un
paragone settoriale con l’analisi soggettiva fatta dagli espressionisti
tedeschi; accettò il giudizio, tuttavia entrambi siamo consapevoli che trattasi
di solo una tangente che condivide i temi e il periodo. In effetti Zarpellon
non è un espressionista, sebbene ne abbia colto lo spirito.
Gli occhi
incavati e circoscritti da profonde occhiaie, innaturali per la tipologia
europide, esibiscono la fermezza contemplativa: guardare senza vedere,
lasciando trasparire quello che l’animo ha da mostrare. C’è nella fisiognomica
dei volti il recupero della negritudine, già fatta vedere da Picasso a
Pechstein; modelli recuperati dal mito del buon selvaggio. Scomparsi dunque
schemi non esoterici, ingenui forse, non inclusivi a meccanicismi esaltanti il
consumismo né agli ingranaggi dell’economia perversa ed oligarchica.
I valori
incuneati tra i lobi cerebrali, del superio buono, catechizzati, caritatevoli,
moralmente sincroni al potere, servizievoli e controriformisti da cinque secoli
in Toni sono divenuti opinabili e, in alcune situazioni, tramontati in lento e
subdolo tradimento. In ciò ravviso la continuità nell’analoga crisi delle
certezze interiori esplicitata dalla poetica espressionista.
Colpevole
chi? Ha contribuito la macchina, in nome del progresso, a soffocare il libero
pensiero del singolo. Il processo produttivo, conseguenza diretta del crescente
tecnicismo, ha massificato i linguaggi “personali”, settoriali, limitando di
fatto la lotta sociale per abbracciare deleteri prodotti dell’ingegno: arti
usa-e-getta. Il recupero del banale per fruire oggi e gettare domani: l’arte
popolare. La pop art.
Se giunse
positivo a Pier Paolo Pasolini l’uso della terminologia tecno-popolare come
mezzo per l’inculturazione sociale dopo il secondo conflitto e veicolo per la
comunicazione da un capo all’altro della penisola, non si può legittimarne per
sempre l’efficacia. Indubbiamente utile il messaggio uniforme, semplice di Mario
Soldati nel singolare viaggio per l’Italia per l’utilizzo unitario della
lingua; dannoso il perseverare dagli anni sessanta allo scopo di mantenere lo
standard culturale medio-basso. Il programma globale delle grandi potenze: la
zuppa Campbell e la Coca Cola di moda sulle tavole come le modelle platinate.
Donne, bibite, sigarette, detersivi e zuppe sono prodotti soggetti a prezzo e
dismissione. Mel Ramos palesa la metamorfosi da Wonder Woman a Belle Noiseuse.
Con la
stessa velocità del prendere-consumare-buttare il mercato immette lavatrici,
televisioni, frigoriferi, telefoni, cellulari, tablet e smartphone, … E se i
primi sono abbastanza statici nella loro evoluzione e segnando utilità, i mezzi
di comunicazione hanno avuto crescita esponenziale, inversamente proporzionale
all’utilità individuale e direttamente con quella del potere, limitando lo
sviluppo critico del pensiero. Nello stato di semicoscienza ne hanno
approfittato i totalitarismi, i grandi fratelli, i persuasori occulti.
Effettivamente
l’uomo pensante denuncia le imposizioni ideologiche e l’economia delle
multinazionali responsabili di aver creato i mostri. Sono tali le puttane e i
militari di Grosz, di Otto Dix, le fisiognomiche grottesche di Ensor … mostri
dei Ventenni prima, dopo e … senza
dubbio ancora per … sempre.
Zarpellon
non esita a mostrare la crocifissione della personalità, peggiore di quella
fisica. Il dio-uomo, neopositivista, che ha scongiurato le paure dell’ignoto,
della malattia e del trascendente nell’annuncio nietzschiano del “dio è morto”
è stato ammazzato proprio dalla sua creatura: la macchina.
Si
capovolgono le certezze. In Metropolis
la bellissima creatura s’appropria dei desideri del suo costruttore per
diventare incontrastata dominatrice. Già i germi del malessere sono fissati nei
fotogrammi del cinema espressionista tedesco di Lang. Analoga situazione l’ho
sentita in Toni: sofferenza nell’afonia ostruttiva al dialogo; la comunicazione
è sintetica, essenziale nel tratto forte e priva di virtuosismi manieristi, …
espressionista dunque come l’universalità del dolore. Il canale comunicativo
del bassanese è scarno allo scopo di giungere direttamente al destinatario, una
pluralità di sottocodici espressivi limiterebbe la trasmissione delle visioni
del mondo.
Alla
Sorbona, i sessantottini contestarono le hegeliane teste di legno; stesse
responsabili della massificazione e del livellamento della cultura sotto egida
del pensiero di stato; gli spiriti liberi, i neo galilei, i marx, i marcuse,
gli horkeimer, i brutti-cattivi … hanno lasciato più di quanto abbia fatto la
“cultura” ufficiale.
Una schiera
di creativi borderline che prima di morire sui lidi di Malta hanno realizzato,
e potrebbero ripetere, il ritratto di attuali madonne proletarie. Ovviamente ci
sono vincoli e freni alle opportunità espressive, perché c’è un filtro censorio
difficilmente frangibile tra l’opinione massificata e l’idea innovativa
artistica.
All’artista
che rifiuta il compromesso con la cultura della tradizione imposta dalla
politica di stato attraverso i media è preclusa anche la possibilità di
mostrare; il dissidente è crocifisso, è messo al confino in nuove Ventotene.
Toni evade
dal cerchio malefico e si rende libero dipingendo le cave dismesse
dell’Altopiano. La Cava di Rubbio viene colorata con teste d’uomini e di
animali. Fissa anime inquiete con occhi sbarrati: i suoi alla tensione di
spiegare il noumeno, il quid oltre la fisica per aprire le porte
dell’intelletto alla libera circolazione delle idee.
La cava
dipinta assume il ruolo del tranquillante alle pulsioni e alle rabbie
dell’incomunicabilità. Toni riallaccia il dialogo con il pubblico attraverso il
recupero di qualcosa di smesso. Il “vestito” scavato, logoro, sfruttato dai
grandi del cemento -responsabili della violazione della natura, della
cementificazione selvaggia, correi della morte dell’individuo unitamente alla
macchina- è rinfrescato, passato in “tintoria”. Toni è l’artefice della
restaurazione e nel contempo fruisce dell’autoanalisi: il transfert con la
Natura. Tra gli interstizi dei blocchi e lungo le fratture di faglia le larve
rigenerano.
Dalla morte
alla rinascita; Zarpellon costruisce il ponte, Die Brücke, analogo a quello degli espressionisti, con il
distinguo. Non c’è la separazione tra le due sponde, ma il collegamento tra
prima e dopo, tra la fine e l’inizio, tra l’ovvio e la verità sofferta.
E ancora:
per scongiurare il responsabile dell’eccidio comune era doveroso far rivivere
nella cava i fantasmi della macchina: fisiognomiche ricavate da serbatoi
destinate ad “abitare” la seconda Cava di Rubbio.
Qui il
silenzio, estatico, incommensurabile misura l’eternità nel tempo. Tra il
paesaggio ospitale, arcadico, bomboniera di mostri si compatta nell’ossimoro la
nausea esistenziale; è la sofferenza del presentarsi agli altri che induce al
malessere dell’esistenzialismo, quello sartriano. Si ravvisa la sofferenza
jasperiana nell’estraneità anche con un cosmopolitismo teologico. Comunque nel
dualismo tra dire e fare, tra fenomeno e noumeno, tra certezza ed incertezza
s’avviluppa il groviglio mentale che induce a rendere atto la potenza.
I serbatoi
sventrati altro non sono che ritratti fedeli dell’essenza dell’intimo umano del
terzo millennio con lo sfondo adeguato, in sintonia: dall’altopiano a picco
sulla piana bassanese s’intersecano lombrichi di strade pullulanti di veicoli …
ancora un frenetico carnaio urbanizzato.
Tuttavia è
dalla solitudine, dalla vegetazione, dai soliloqui che s’insinuano le
auto-certezze; i dialoghi interiori su cui radicano le relazioni umane e si
confrontano i saperi … Ricordo che migliaia sono annualmente le visite alle
Cave di Rubbio. Sono queste ultime un indiscusso ricettacolo d’idee e punto
d’interscambio culturale.
Toni
Zarpellon riadatta la metafora settecentesca del lume della ragione contro
secolari tenebre dell’ignoranza. La candela dentro la zucca svuotata: la luce
in testa per sconfiggere paure, streghe, malefici e pilotare lo sforzo
razionale alla conquista del sapere. Illuminazione dunque contro i fantasmi
della non-conoscenza. Sorgono le domande: i grafemi tanto sfruttati dal
Bassanese.
Susseguono
innumerevoli quesiti; effettivamente l’arte più che dare risposte alterna
interrogativi a provocazioni, sillogismi e metafore. I programmi, i manifesti
del XX secolo hanno fatto emergere settoriali angolazioni d’indagine attendendo
l’unanime consenso durante e dopo la progettazione. In molti casi l’adesione
del singolo alla corrente è forzata; un tentativo di mettere d’accordo delle
idee, quasi un’associazione d’insiemi che convergono in una misera appendice di
scopo. Con un segno, con una pennellata è già astrattismo, magari informale … E
il Novecento è stato fecondo di movimenti, o di intenzioni che hanno codificato
correnti.
Man Ray
sostenne che l’amico Duchamp preferì lavorare da solo, senza adattarsi a schemi
plurisottoscritti, né a manifesti.
Toni è
artista individualista, poco disposto a condividere in équipe il pensiero e non
fa neppure “scuola di bottega” pur avendo uno stuolo di estimatori,
collezionisti, amici dalle cave allo studio.
Sono
convinto che abbia ripreso “colore” con la full immersion nell’Altopiano; le
larve in simbiosi con il pubblico e con la natura hanno dato vigore al DNA
creativo. In plein air ha maturato la
disponibilità alla comunicazione, riappropriandosi il ruolo d’Artista. E’ una
ri-nascita della sua produzione: razionale, sincretica, più soppesata rispetto
al linguaggio pittografico della Cava dipinta; l’opera è eseguita nello studio
nel dualistico intimo dialogo io-io.
Esegue
l’autoritratto per autoanalisi e rispondere alle questioni dell’identità
non-certa, inculcata dal “vai sociale”. Cento o forse più le auto
rappresentazioni, autocelebrazioni, auto interrogativi: noumeni. Sono volti
colti nell’essenzialità del segno e del colore, pur evidenziando appieno i
volumi. Ho ravvisato un intrinseco collegamento di continuità con l’arte nera
portata in Europa il secolo scorso.
Lo studio è
il grembo, dove matura il desiderio di esibirsi per cum-dividere. Lo stress
positivo necessita dell’altra oltre al sé per completarsi e per esprimere la
peculiare poetica. Il sillogismo è l’idoneo mezzo. L’ipotesi è creazione
cerebrale: illuminazione, vita interiore, il sé. L’antitesi è nell’incertezza,
nel quesito, nel noumeno. La tesi si auto produce nell’universalizzare ciò che
è dentro, il vissuto che necessita dell’altro fuori da sé. Toni crea le teste
di donna. Ancora cento per logica comparazione ed equilibrio.
Effigi non
belle, tecnicamente non elaborate. La fotografia avrebbe riprodotto
puntualmente donne fatali non gli stati emotivi. Nei volti sono stampate espressioni diverse: il
sorriso, la fissità dell’introspezione, lo sguardo penetrante, … La mimica
facciale continua con il corpo: i nudi.
Donne
sdraiate su divani, su seggiole di vimini sono colte nella meditazione;
nell’intenzione di lasciare allo spettatore il pensiero piuttosto della figura.
Modelle non intenzionate a dare spettacolo con il corpo, ma comunicare il succo
dell’identità. Toni supera l’espressionismo estetico, post-impressionista di
Derain; le figure del bassanese acquisiscono i caratteri introspettivi
analogamente, e più, dell’esibizione dell’io-nudo di Marcella di Kirchner.
Dalle tele e
dai disegni esce l’aria pesante, dura dell’attesa. La femmina colta nel suo essere
tale, senza difese, gravida solamente del desiderio di comunicare la
personalità, repressa sotto gli abiti. La nudità esprime ciò che è dentro,
altrimenti non visto perché occultato dalle vesti: le divise di femmina.
Davanti all’artista c’è l’occasione per raccontare l’identità di donna in piena
libertà.
I nudi di
Zarpellon non sono dunque piacenti, né inducono a pensieri sensuali; la nudità
è disarmata nel proporsi e disarmante nell’autocelebrazione; sono ostentazioni
di esistenzialismo senza vanità.
Comunque
immagini quasi private uscite dallo studio … Lui seduto tra i colori e alle sue
spalle l’opera finita: la modella volta ad osservare l’aprica distesa della
pianura sotto l’Altopiano.
Presentimento
della necessità di uscire, gustare i sapori delle stagioni, il profumo
dell’erba, l’odore dello stallatico e dei ciclamini. Linee d’orizzonte
squassate da monti lontani; terre verdi
e rosse, linee color ruggine e cieli tersi. La scomposizione del paesaggio era posizionata
lì davanti ai miei occhi e sulle sue tele.
La sintesi e
la globalità della visione: faggeti rossi esibivano avvizzite le foglie nella
corale verde dei declivi.
La nuova
Arcadia era forse tra quei monti? Forse sì. Toni m’aspergeva di fumo nella
conversazione. Avvertii Zarpellon forte, filosofo nel puntare al petto il
fioretto delle sue sentenze. Nuovo Courbet esalta lo spirito della vita in una
bucolica neo-Barbizon.
Daumier
avrebbe ancora mostrato i passeggeri di terza classe; Toni non disdegna di
lanciare strali contro gli oligarchi dell’economia… Si sente coinvolto nel
consorzio esistenziale. Satirico, sprezzante, nell’unicità interpretativa
mostra pure il paesaggio quotato in borsa in un grafico di rialzi e cadute
improvvise. Messaggio veritiero come sa fare un artista immune da mediazioni di
parte.
Ho sentito
sotto le suole lo scricchiolio della neve ancora dura sopra le zolle erbose. I
rivoli freddi del disgelo liberano i totem della Cava abitata; le creature
tristi, morte anzitempo, crocifissi dalle macchine che li hanno generati,
rimangono nella pietraia desolata, così come si mostrano ancora facete le
creature larvali variopinte della Cava dipinta.
Reggendo la sigaretta come un tedoforo, maratoneta nel paradiso di
Rubbio ho gustato ancora l’arte, la sua, nelle linee carminio di nubi al
tramonto e nel cupo di verdi lontani. Ho abdicato ogni pensiero razionale ed ho
risentito dentro la poesia.
Vincenzo Baratella
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parte di questo catalogo può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o
con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione
scritta dell’Autore.
© Copyright Vincenzo Baratella
Via Fiume, 18 –
45100 Rovigo
© Foto pr.ema
Toni Zarpellon
è nato a Bassano del Grappa dove vive e lavora. Ha frequentato l'Accademia di
Belle Arti di Venezia. Ha insegnato presso gli Istituti d'Arte di Nove e dei
Carmini di Venezia. Espone dal 1965 in numerose mostre personali e collettive
in Italia e all'estero. Nell'autunno del 1989 inizia gli interventi nelle
"Cave di Rubbio"; una notevole impresa per la quale la comunità di
Rubbio, nell'aprile 1991, gli assegna un riconoscimento.
La sua attività
artistica è documentata presso: l'Archivio Storico A.S.A.C. della Biennale di
Venezia; Fondazione Ragghianti, Lucca; Fondazione Corrente, Milano; Biblioteca Kandinsky,
centro Pompidou, Parigi e altre istituzioni Culturali in Italia e all'estero. Nel
marzo 1999 è stato iscritto all'Albo Nazionale Pittori e Scultori, A.N.P.E.S.
L'opera di Toni
Zarpellon è riportata da Giorgio di Genova nella storia dell'arte italiana del
'900.
Nel 2006 e 2008 si fa
riferimento all’opera del bassanese nelle edizioni Electa "La pittura nel
Veneto - Il Novecento"
E’ presente con
"Cento giorni per cento autoritratti 1999-2000” presso la Sala Ospiti del
"MAGI", Museo d'Arte delle Generazioni italiane del '900, a Pieve di
Cento (BO).
Nel 2008 è invitato
alla rassegna "Arte al bivio -Venezia negli anni sessanta-" a cura di
Nico Stringa, tenutasi presso l'università Cà Foscari. Nel 2011 è uscito, per
le edizioni Napoli Nostra, il volume "Fra tradizione e innovazione -
artisti italiani da non dimenticare" dove Rosario Finto ha preso in
considerazione l'opera di Toni Zarpellon.
Un dipinto del 1973 è
pubblicato nel catalogo della mostra
alla Casa dei Carraresi di Treviso "II pittore e la modella, dal
Canova a Picasso".
A marzo 2008 e in aprile 2011 è allo Studio Arte Mosé
di Rovigo con due personali tematiche. Nel settembre dello stesso anno
espone all’ex-Istituto Statale d'Arte in
Campo dei Carmini a Venezia. Successivamente a Milano riscuote unanimi
consensi. Nel 2013 è tra gli Artisti della Fiera Arte Padova.
© Copyright 2014. Studio
Arte Mosè
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